a cura di Leonardo Maisano (Barbadillo.it)
Milano – I terribili anni Settanta, quelli della “lotta
antifascista”, quelli dei timori golpisti, quelli soprattutto di Sergio
Ramelli “primo della lista”, restano fuori dalla porta. Per
qualche minuto nell’aula della seconda corte d’assise, non c’è spazio
per l’analisi politica, per le sottili giustificazioni ideologiche al
turbolento decennio passato. Per qualche minuto in un aula
oramai satura di frettolose riletture del “tempo che fu”, entra una
madre. Anita Ramelli Pozzoli. Non c’è odio non una parola per indicare
gli imputati, gli ultra di Avanguardia operaia che sprangarono a
morte il figlio nel marzo ’75, neppure un “quelli lì”. Non esistono,
nella breve deposizione della mamma di Sergio Ramelli. Stretta in un
tailleur a quadretti beige e marrone, con una camicia rossa, con grandi
occhiali scuri a coprire gli occhi gonfi e la voce soltanto incrinata
dall’emozione, attacca così: “Con i suoi compagni di classe
aveva rapporti ottimi. Sergio non era un ragazzo violento, aveva
maturato una sua idea e per questo era stato preso di mira: insulti,
calci, spintoni.. Ma lui per primo minimizzava le cose.
L’ultimo anno all’istituto tecnico Molinari fu il più pesante. Gli
fecero cancellare delle scritte apparse sui muri della scuola. Ma tutti
pensavano che fosse finita lì. Invece continuarono con i picchetti a
scuola fino a quando decise di lasciare l’istituto. Quando andò a
ritirare il nulla-osta per iscriversi in un istituto privato fu
picchiato”.
L’incubo per la famiglia Ramelli era soltanto cominciato, l’aria era
avvelenata e l’escalation di intimidazioni cresceva spaventosamente.
“Quindici-venti giorni prima – riprende Anita Ramelli (dell’aggregazione
n.d.r.) apparirono scritte sui muri: “Ramelli fascista sei il primo
della lista”. In casa arrivavano telefonate a tutte le ore e ci facevano
sentire Bandiera rossa”.
Quelle telefonate erano un incubo che martellava casa Ramelli,
insidiose, continue. Si trasformarono poi in un disgustoso inno alla
morte quando qualcuno (gli imputati hanno tutti concordemente negato di
averlo mai fatto) chiamò la sera dei funerali di Sergio. “Fu una
telefonata di insulti – ricorda Anita Ramelli – e quella sera
proseguirono a chiamare fino alle 22″.
Dovette cambiare numero telefonico, ma le minacce continuarono con
telefonate ai vicini. Attaccarono manifesti sotto casa, e intimidirono
il fratello di Sergio, tentarono addirittura di aggredirlo. Un odio
cieco che ha annientato una famiglia. “Luigi (il fratello di Sergio
n.d.r.) lo facemmo andare via da casa dopo quanto era accaduto a
Sergio”, ricorda Anita Ramelli.
Poi fa un passo indietro, accenna all’agonia del figlio. Un
mese e mezzo di flebile speranza che si ravvivò quando per 48 ore Sergio
sembrò riprendersi, stare meglio. “Mi guardava presidente, faceva un verso un ah, ha. Non riusciva a parlare, non poteva; però sono sicura, capiva. Gli chiesi se soffrissi per i dolori della testa e lui con il capo mi fece segno di no “.
“Ma in tutto questo tempo – domanda il presidente – lei signora non
ha mai avuto un segnale, un gesto da parte degli imputati di qualcuno”.
“No, solo verso l’estate mi hanno fatto avere una lettera con qualche
firma “. “Signora, io non le faccio domande sul risarcimento del danno
(gli imputati lo ricordiamo hanno offerto 200 milioni mai accettati
n.d.r.) “. “La ringrazio, presidente, io aspetto giustizia, perché
quando ho ricevuto quella raccomandata che mi annunciava l’intenzione di
pagare, ho sofferto. Forse è una prassi normale, ma non l’ho trovata
poi così giusta”.
La sequenza di lutti dopo la morte di Sergio continuò in casa Ramelli: qualche anno dopo morirono il padre del ragazzo e lo zio.
Anita Ramelli si alza e si incammina verso la porta: è attesa
da un’amica e da una ragazza che le assomiglia. E’ la figlia Simona, di
20 anni, ne aveva 8 quando Sergio crollò sotto le sprangate.
L’udienza continua, sfilano un’altra decina di altri testi, anche i
ragazzi sprangati in largo Porto di Classe, ma le luci sono spente
oramai, mentre Anita Ramelli se ne va in attesa di giustizia, dodici
anni dopo.
* da Il Giornale del 23.4.1987
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