di Mario M. Merlino
Con la straordinaria capacità di dare vita a vivide immagini, tanto che lo si potrebbe annoverare quale narratore e non soltanto fra i massimi maestri della filosofia, Platone nel Timeo sembra avere a mente quanto verificatosi nel mito di Urano e Gea, ove cielo e terra si sono violentemente dissociati, ricordandoci come ‘noi non siamo come le piante, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove dio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto’.
(Fra
i Germani l’albero sacro, il bianco frassino, ha le radici rovesciate in quanto
dal cielo prende la sua forza e tale immagine permane nella mistica cristiana,
ad esempio in Vittorino da Feltre. In alcune tribù dell’America latina si parla
espressamente di una liana che, spezzatasi, impedisce di salire oltre la cima
degli alberi…). Qui, nella citazione proposta, è la capacità del pensare
razionale, l’unico, che consente di riavviare una sorta di percorso a ritroso,
la reminiscenza, perché ‘l’anima’ intraveda il mondo delle Idee – tramite il
mito della caverna (ed ancora il termine ‘mito’
la fa da padrone!) o quello dell’auriga (e debole, ci pare, ogni tentativo di porre
distinguo tra i miti messi in atto da Platone e quelli intorno agli dei agli
eroi alla cosmologia. E Georges Dumézil, che di tutto ciò se n’intendeva,
annota come Platone, attraverso l’impero persiano degli Achemenidi, era in
contatto e a conoscenza della mitologia Arya ) –.
Se,
dunque, cielo e terra si sono separati, separato è anche l’uomo, scisso tra
anima (nel senso greco e cioè il luogo privilegiato della conoscenza o, dove la
retta conoscenza può manifestarsi) e il corpo (il luogo del divenire, del
finito, dell’imperfezione e di tutto ciò che cade nelle leggi del caduco e
dell’effimero). Sempre Platone avverte il corpo la prigione dell’anima che,
fintanto è costretta a coabitare in questa prigione, non potrà mai accedere a
forme compiute di sapere. Ecco perché, pur stimando lo stile spartano, ne
rimprovera la rozzezza dei costumi, la sostanziale mancanza di una cultura
vivificante (ad esso egli contrappone l’ideale aristocratico della kalos-kai-agathia, la virtù del bello e
del buono che, a Roma, si tradurrà in mens
sana in corpore sano).
Ecco
perché s’è detto, in precedente intervento, come il termine ‘filosofia’ si
trovi nell’ambiguità dell’indicare ciò che porta in sé l’indicibile quale
definizione del concreto. Infatti amare non implica il possesso dell’oggetto
amato, quel prendersi cura di qualcosa che, se il mondo è il regno della
inconsistenza, è soggetto a deperire a rovinare… Fuori e dentro di noi. I
filosofi fisiocratici, tradotti dai latini con termine deformante
‘naturalisti’, avvertivano il mistero che si celava appunto dietro l’apparire
(ecco perché si fecero propositivi dell’arkè o principio/i dei fenomeni
naturali) e quanto fosse complesso mettersi in cammino negli spazi interiori
(un frammento di Eraclito si fa esplicito: ‘per quanto tu cammini e percorra
ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima, tanto è profondo il
suo lògos’ e ciò ben prima che intervenissero i sensi di colpa le introspezioni
i fremiti di una cultura monoteista).
E
potrei aggiungere, attraversando le colonne d’Ercole e aprendomi al vasto mare
– d’altronde lo spirito come il vento soffia dove vuole –, che il popolo Maya
usava spostarsi ed edificare le città in rapporto al proprio calendario in
quanto ‘non per sempre sulla terra, solo un poco qui’, tutto essendo
corruttibile e ad altro luogo rimandando la propria origine… Di come la
pensasse il Buddha, che proveniva da un regno di guerrieri ed egli stesso era
principe Arya, l’ho scritto più volte rinnovando quanto trovasi in uno dei
testi più antichi e, cioè, dello scontro tra l’eterno l’incorruttibile il
sempre a sé immoto Brahma e il divenire nella consapevolezza di dover
scomparire del Risvegliato.
Ne
La nascita della filosofia Giorgio
Colli (che fu curatore con Mazzino Montanari dell’Opera Omnia di Nietzsche)
avverte come il filosofare è un altro modo di organizzare il pensiero dopo che,
nella Grecia antica, erano venute meno altre forme di sapere – ad esempio, la
mania o l’oracolo. Una forma di crescita della razionalità, così tendono ad
insegnare gli sciocchi e gli arroganti e i presuntuosi esponenti della cattedra
e del registro (io fra costoro fui colpevole a volte, ahimè, lo confesso!) o
una regressione della sapienza? L’aristocratica filosofia in fondo diviene il
brulicare di uomini e di parole nella piazza del mercato (l’agorà), un modo
plebeo di innalzarsi contro la roccaforte (l’acropoli) ove i detentori della
spada e dello scettro si ritenevano diretti eredi degli dei – e forse lo erano
(edificante è la scena dell’Iliade ove Ulisse dileggia il buffo e deforme
Tersite e lo colpisce sulla gobba proprio con il bastone del comando… in quanto
da semplice miles pretende una più equa distribuzione del bottino, egli che è
un comune mortale e non porta nel sangue l’eredità di una razza divina di
signori!). Quando il governo di Prussia volle, sotto Federico il Grande nel
‘700, fare un censimento per conoscere il grado di istruzione dei suoi sudditi
(prima e primo ad introdurre l’istruzione obbligatoria), ad un messo che s’era
permesso interrogarlo se sapesse leggere e scrivere, uno Jùnker rispose, orgoglioso,
‘per grazia di Dio sono analfabeta…’.
Il
mito degli dei la filosofia degli uomini…fratelli, nemici…
Scritto
nelle prime ore del mattino, 12 dicembre, a quarantaquattro anni dalla strage
di piazza Fontana… ‘Torni a cena?’ ‘Sì, mamma, tienimi in caldo la minestra’…
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