di Claudia Grazia Vismara (L'Intellettuale Dissidente)
Perciò la morale perde gran parte della connessione con la vita pratica e con le virtù specifiche, confondendosi con l’esercizio di scelte puramente personali e con l’espressione di (pre)giudizi che non possono più essere giustificati né spiegati, e che quindi non debbono essere considerati impegnativi per nessuno.
E’ un’epoca difficile la nostra, costantemente immersa nel godimento delle comodità materiali un tempo ignote alle generazioni precedenti. Annegato in una società liquida[1] ove aleggiano nebbie diffuse e fresche come quelle dell’alba, l’uomo offusca gran parte dei pensieri concentrandosi esclusivamente sul problema della sopravvivenza che lo lascia indifferente agli appelli che meriterebbero davvero la sua attenzione; niente, infatti, lo trova tanto distratto quanto il racconto di un’ulteriore crisi, al punto che l’infiltrazione retorica di quest’ultima nella vita quotidiana ne impoverisce l’idea stessa. La modernità porta in essere la capacità di fare piazza pulita di tutto – crudele legge del vae victis - in nome del profitto, in nome, di più, dei metodi tayloristici di pianificazione del LAVORO che portano i dipendenti nel baratro di una sub-umanità meccanizzata. Una danza occidentale che ci è familiare: logiche di mercato che prevalgono sulle logiche della società, preminenza della quantità sulla qualità, oltremodo dell’egoismo solipsistico sull’interesse comune. Una vita in apparenza sicura ove un necessario materialismo trova la propria compensazione nella retorica di grandi parole democratiche; una vita staccata da ogni principio superiore e fatta valere nella sua angosciosa immediatezza, senza luce. A causa della qualità della comunicazione non si crea più alcun ponte ma, al contrario, nasce un intervallo. Le frasi rimbalzano da una parete all’altra, fredde come cenere, cenere per coprire l’intervallo.
La qualità principe dell’uomo massificato è la quantità, è il suo essere misurabile che lo costringe al muro, incapace di spingersi oltre la frontiera della rivolta. Ma essere misurabile vuol dire ch’egli ha un principio ed una fine e nella successione trova il massimo della bellezza, così come trova il dolore. Corpo ed anima vivono con il medesimo ritmo, cieco all’esperienza dello spirito, scivolando da una verità all’altra, sempre dimentica della prima, sempre insoddisfatta, sempre profana. Sempre in crisi. Oggi, l’uomo si distingue dagli altri in relazione al movimento che compie e non in base alla propria sostanza, un movimento che è isterico e per nulla aggraziato, congelato tra un istante e l’altro, tra il passato e il futuro, dove è percettibile la bianca vacuità dell’intervallo poco prima menzionato. L’uomo si focalizza esclusivamente sulla propriasopravvivenza, che può soltanto essergli prossima, giacché è tipico della società attuale disinteressarsi ai problemi pubblici generali e preoccuparsi soltanto delle crisi della vita quotidiana, che ovviamente sono considerevoli, al punto che la speranza di prevenire il disastro generale gli appare così remota da affacciarsi nella sua mente solo nella forma di un accorato appello di indefinita speranza. Vuoto, quindi, come la distanza da un minuto all’altro nel quadrante dell’orologio, un orologio doloroso, difficile da sopportare.
Scrivere di sopravvivenza oggi è di ardua impresa, poiché tale parola è stata indebolita a seconda delle molteplici connotazioni ad essa attribuite, come del resto accade ai vocabolitradizione o nostalgia. L’unica cosa certa è che l’uomo è al contempo sopravvissuto e vittima. Una delle prime reazioni alla sopravvivenza è senza dubbio l’esasperazione della competizione, divenuta oramai una lotta per evitare una sconfitta schiacciante, molto lontana da quel desiderio di eccellere che un tempo la definiva. Il guerriero e il ribelle, insomma, gli antichi prototipi di competizione vittoriosa, hanno ceduto il posto all’opportunista che, attraverso tentativi pieni di cupidigia, tenta di prevalere sull’altro – astuta viltà! – per una commovente volontà di resistere di più e più a lungo. Perciò le situazioni limite, scrive Goffman, danno rilievo «ai piccoli atti della vita» e non alle«grandi forme di lealtà e di inganno». Perciò la morale perde gran parte della connessione con la vita pratica e con le virtù specifiche, confondendosi con l’esercizio di scelte puramente personali e con l’espressione di (pre)giudizi che non possono più essere giustificati né spiegati, e che quindi non debbono essere considerati impegnativi per nessuno. Ecco che si arriva al deterioramento della vita pubblica e alla banalizzazione delle idee morali. In un simile contesto, come può l’uomo aggredire l’ideologia dominante? Che gli uomini sorgano in piedi tra le rovine è un dato certo. L’avvenire non sarà tuttavia di chi si culla con le idee frammentate presenti nell’attuale clima politico, bensì di chi avrà il coraggio di discernerle e, se serve, di resisterle, purché sia corazzato da una sufficiente fibra morale.
[1] Modernità liquida, Zygmunt Bauman
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