martedì 23 settembre 2014

Perché non riusciamo a comprendere il nichilismo...


di Claudia Grazia Vismara (L'Intellettuale Dissidente)

Parafrasando Heidegger, occorre ammettere che il nichilismo esiste ed è necessario guardarlo in faccia, a viso scoperto, giacché il nulla, per apparire, è sempre mascherato. E’ necessario accorgersi che oggi il non-senso si amplia sotto la maschera dell’unico valore certo che si palesa ai nostri occhi: il valore del denaro.

L’avvento della civiltà della tecnica è caratterizzato da molte condanne tra cui, pare soprattutto in Occidente, la progressiva dimenticanza dell’Essere. E’ sempre esistito il tramonto che successivamente porta alla notte; il primo, fenomeno per cui la luce del sole pian piano si attenua sino a scomparire seguendo la fonte che l’ha generata, è l’immagine perfetta per descrivere il declino dell’Occidente ove la luce dell’Essere compie il medesimo percorso della luce del sole, dissolvendosi nello stesso modo. Sembra addirittura che siano bagliori simili e a cambiare sia invece il modo in cui noi li osserviamo. Il sole viene visto con gli occhi, organi di senso di cui tutti siamo dotati, mentre l’Essere viene visto con gli occhi della mente. Già a questo punto arrivano delle limitazioni, poiché mentre la prima viene vista da tutti, soltanto in pochi hanno colto la seconda, quella dell’Essere. Chi riuscì a scorgerla per prima fu la civiltà greca, circa venticinque secoli fa, mentre chi ne percepì il suo tramonto furono essenzialmente poeti, scrittori e filosofi, tra cui Hölderlin, Schopenhauer, Spengler, Freud, Leopardi, Nietzsche, Mann e Heidegger, alcuni dei più grandi.
Ad ogni modo, questo tramonto porta con sé quell’affare che chiamano nichilismo, un concetto che si attribuisce principalmente al filosofo Friederich Nieztsche. Probabilmente, però, non tutti sanno che l’invenzione di tale parola risale a Ivan Turgenev, scrittore russo, che ne parlò quasi cinquanta anni prima che il filosofo tedesco la riflettesse nei suoi testi. La associamo tuttavia a Nietzsche poiché egli l’ha pensata molto, l’ha discussa nei suoi libri, ha definito il nichilismo come «senso dell’epoca a venire» tanto che, nell’annunciarlo, diceva che ciò che egli andava dicendo lo si sarebbe capito dopo cinquanta anni. Nichilismo significa mancanza di uno scopo, mancanza del perché delle cose al punto che il giudizio viene meno e tutti i valori si svalutano. Dio è morto. Dio, la rappresentazione degli ideali e dei valori immutabili; nichilismo, per Nietzsche, il processo di svalutazione di tali valori.  E’ pur vero che la Storia va avanti proprio perché determinati valori si svalutano in favore di nuovi ed è possibile corroborare tale affermazione assumendo ad oggetto un evento storico fra molti: la rivoluzione francese. Poco prima del luglio 1789 (data simbolo della rivoluzione francese che coincide con la presa della Bastiglia), infatti, ben funzionavano i valori gerarchici, mentre successivamente ne nacquero di nuovi come l’uguaglianza e la cittadinanza – almeno formale. Ovviamente si parla di valori non in termini di significato assoluto e religioso, giacché sono fattori di coesione sociale, ovvero pure e semplici valutazioni umane. Heidegger affermava che il nostro tempo è un tempo di povertà estrema caratterizzato dal fatto che «più non son gli déi fuggiti – i valori precedenti – e ancor non sono i venienti  – i nuovi valori che organizzano la società a venire». Ha parlato di nichilismo passivo, ovvero di decadenza, che ha come sua conseguenza diretta la rassegnazione, ancorché l’individuo si vede realizzato all’interno di un «sano realismo che si accompagna poi ad un deprecabile egoismo». Parafrasando Heidegger, occorre ammettere che il nichilismo esiste ed è necessario guardarlo in faccia, a viso scoperto, giacché il nulla, per apparire, è sempre mascherato. E’ necessario accorgersi che oggi il non-senso si amplia sotto la maschera dell’unico valore certo che si palesa ai nostri occhi: il valore del denaro.
Sorge spontaneo l’interrogativo di come poter discernere il presente e quali strumenti abbiamo a disposizione. La risposta non può ancora essere pragmatica, poiché all’uomo moderno, felicemente omologato, manca la sensibilità che gli consentirebbe di scorgere il presente nella sua totale ed amara natura. Il filosofo Umberto Galimberti ha operato un’interessante riflessione su come percepiamo il mondo, rilevando in tal senso dei livelli di emotività. Parla innanzitutto di impulsi, fisiologici e naturali, che hanno come loro espressione non la parola, bensì i gesti. Subito dopo trova lemozioni, una forma più emancipata dei primi, giacché l’impulso «conosce il gesto, mentre l’emozione conosce la risonanza emotiva di quello che si compie e di quello che si vede». Al livello successivo, l’ultimo, trova il sentimento, ovvero la forma più evoluta tra le tre, poiché oltrepassa la sfera emotiva ed arriva a coinvolgere la cognizione. Una madre, per esempio, capisce lo stesso il proprio figlio che non parla, perché lo ama. Il sentimento è qualcosa che non si trasmette geneticamente, non è una dote naturale: va appreso. Gli antichi, per esempio, imparavano attraverso le storie mitologiche; se guardiamo alla mitologia greca, difatti, troveremo tutta la gamma dei sentimenti possibili: Zeus il potere, Atena l’intelligenza, Afrodite l’amore, Apollo la bellezza, e così via. Insomma: una vera e propria fenomenologia dei sentimenti umani. Noi, al contrario, li impariamo attraverso la letteratura, ovvero sia quel luogo in cui si apprende cosa sia l’amore, il dolore, la noia, il romanticismo, il suicidio. Eppure la letteratura non viene più considerata ed i libri non vengono più letti, perché, si sa, la lettura necessita di ozio e dove lo troviamo il tempo per leggere se siamo senza tempo, in questa modernità lanciata in una accelerazione senza futuro? Se per di più anche la scuola disaffeziona a questi scenari, ecco che i sentimenti non si formano. Se la letteratura non interviene, l’individuo resta al livello dell’impulso o al massimo dell’emozione. Resta pre-maturo. Resta senza i decorsi più profondi dell’animo umano, manifestando una inclinazione bulimica nel discernimento del bene dal male, del giusto dall’ingiusto, capendo però molto bene cosa sia utile e cosa no. L’uomo come pastore dell’Essere avremmo detto un tempo; oggi, forse, è soltanto pastore delle macchine.

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