giovedì 4 settembre 2014

Hipsteria collettiva e decadenza...

 

Riprendendo la lucida riflessione di Bordieu è possibile comprendere come il gusto anti-mainstream degli hipsters, il loro consumo vintage e raffinato, li autorizzi a sentirsi anche spiritualmente superiori al consumatore medio. Ma sempre di consumatori stiamo parlando. Sebbene, più o meno consapevolmente, prendano le mosse dalla cultura indie-rock degli anni ’90, che si proponeva quale anticonsumista, gli ihispters non sono che tardo-capitalisti. Figli del loro tempo.

 

 

Capelli dal taglio asimmetrico, montatura degli occhiali spessa, musica Indie-rock nelle cuffione, sciarpe anche d’estate, camicia studiatamente sgualcita, jeans stretti e accessori vari. L’identikit dell’hipster medio potrebbe arricchirsi via via di particolari, sfumature, dettagli, a seconda del personale background culturale. Ma più o meno ci siamo.
All’aspetto estetico, fondamentale ma non autonomo, va aggiunto uno gusto feticista per il vintage, soprattutto per il vintage tecnologico, una buona scolarizzazione, più alta rispetto alla media, un orientamento politico progressista, un impiego, anche ben pagato, nelle agenzie dell’estetica contemporanea e postmoderna: media, web-design, musica, cinema, e-commerce.
Il termine hipster è stato coniato negli anni Quaranta negli Stati Uniti per indicare quei ragazzi bianchi appartenenti alla middle class che emulavano lo stile di vita dei jazzisti afroamericani. Jack Kerouak li descrive negli anni ’50 come degli erranti portatori di spiritualità. Norman Meiler si spinge a definirli, negli anni ’60, esistenzialisti statunitensi. Ma da allora le cose sono cambiate.
L’hipsteria collettiva degli ultimi anni ha raggiunto livelli sufficienti per essere studiata, analizzata e ricostruita con cura. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale si sono susseguiti movimenti giovanili e sub-culture il cui obiettivo era quello di rovesciare lo status-quo. Un obiettivo pretenzioso che non è mai stato raggiunto completamente ma che comunque ha portato a radicali cambiamenti in ogni ambito della vita associata, dalla musica all’arte figurativa, dalla politica all’economia. Tuttavia dopo che l’hip hop e il punk hanno perso il loro slancio iniziale, alimentato dalla richiesta di cambiamento sociale, e sono stati brandizzati, anestetizzati e  plastificati nella moda, le precedenti sub-culture si sono fuse assieme.
Dal calderone contenente il brodo culturale indie-rock degli anni ’90, è uscito stropicciato il primo hipster, ha inforcato gli occhiali, comprato una reflex e indossato una camicia jeans. Il neo-bohemien post 1999 ha poi conosciuto il web 2.0 e la tecnologia social e in meno di un decennio quello stesso hipster stropicciato, con gli occhiali e la reflex ha iniziato a condividere foto su Instagram. 
Scrive lo scrittore canadese Douglas Haddow nel 2008 sulla rivista di critica culturale Adbusters:
Ora si sta affermando un nuovo stile, mutante, trasversale, transatlantico. Un melting pot di stili, gusti e comportamenti che va genericamente sotto il nome di stile ‘hipster’. Lo stile hipster ha operato un’appropriazione artificiale di stili differenti, provenienti da epoche differenti. L’hipsterismo è lo stile caratteristico della fine dell’occidente – una cultura persa nella riedizione superficiale del proprio passato, incapace di creare qualcosa di nuovo.”
Haddow individua nell’hipsterismo quella cultura figlia del vanitas vanitatum omnia vanitas, una cultura  consapevole di vivere in un periodo di decadenza, di crisi di quelle idee che hanno solcato il Secolo Breve, e altrettanto consapevole di essere incapace di produrre cambiamento. Se le precedenti contro-culture giovanili hanno cercato di criticare e scardinare le disfunzioni delle generazioni precedenti attraverso la lotta sociale, quindi la contrapposizione di valori antagonisti, oggi l’hipsterismo, caleidoscopico movimento culturale, non ha nuovi valori da proporre.
La globalizzazione e la televisione prima, i voli low-cost, gli smart-phone e i social media poi, hanno compattato i giovani occidentali, europei e americani. Gli hipsters sono la generazione perduta di chi non riesce a diventare se stesso. L’ultima fermata di un treno partito il secolo scorso. Una generazione rassegnata all’ipocrisia di chi prima di loro ha cantato canzoni di ribellione e poi si è seduto dietro una scrivania. L’hipsterismo è l’Occidente che si guarda allo specchio. E si scatta un selfie.
L’assenza di contenuto è ciò che in maggior misura rende difficoltoso dare una definizione di chi sia un hipster e di cosa faccia esattamente. Nella ricostruzione della genesi della cultura hipster, un ruolo particolarmente importante è giocato dai mass-media e dal brandismo. Il vuoto di contenuto viene infatti facilmente riempito dalla forma.
Scrive ancora Haddow:
Invece di fare delle cose ed avere delle passioni dettate dalla propria identità, al contrario è l’identità dell’hipster a costruirsi intorno a ciò che fa e a ciò che consuma. Questo comportamento è particolarmente importante per il marketing dei brand, perché quando un prodotto viene scelto dagli hipster acquisisce immediatamente maggior valore e desiderabilità nel resto della popolazione. L’hipster è la quintessenza del consumatore moderno.”
L’Hipsterismo è la prima “contro-cultura” ad essere nata sotto la lente del microscopio del marketing, del brandismo e della pubblicità. Prima che una sottocultura, gli hipster sono quindi un gruppo di consumatori, che usano il loro capitale per procurarsi autenticità vuota e ribellione portatile.
Scrive il critico letterario americano Mark Greif, professore associato della New School University di New York:
“Lo stile “cool” ma “senza alcuno sforzo” dell’hipster è rappresentato dagli spot e dalle pubblicità dei marchi Urban Outfitters, American Apparel, Woolrich, che hanno gli hipster come target. Un mito dell’hipster è che non c’è definizione per l’hipster. Nell’agosto del 2010, dopo aver calcolato che il New York Times aveva usato la parola “hipster” in più di 250 occasioni nell’ultimo anno, Philip Corbett, il responsabile della grammatica del giornale, scrisse una lettera aperta alla redazione per chiedere di fare attenzione ad un uso eccessivo della parola, perché non se ne conosceva ancora il significato preciso. Eppure sappiamo benissimo cosa significhi.”
E’ quella persona dice Grief: “a cavallo tra il neo-bohémien, il vegano, il ciclista militante o lo skater-punk, il vorrei-essere-un-impiegato-in-una-start-up, il ventenne post-razziale, l’artista povero in canna o lo studente appena laureato che nei fatti si posiziona tra consumi subculturali alternativi e anticonformisti e la fascinazione per le classi dominanti e quindi conduce una vita velenosamente divisa tra i due poli, quello subculturale e quello dominante”.
Il grande sociologo francese Pierre Bordieu, ne “La Distinzione: critica sociale del gusto” (1979), conduce una ricerca sul consumo quale pratica culturale che esprime i valori etici ed estetici di una società. Attraverso il consumo si riflettono e combatto le distinzioni tra le classi, poiché gli oggetti di consumo diventano segni distintivi dell’habitus di un determinato gruppo sociale o culturale. Riprendendo la lucida riflessione di Bordieu è possibile comprendere come il gusto anti-mainstream degli hipsters, il loro consumo vintage e raffinato, li autorizzi a sentirsi anche spiritualmente superiori al consumatore medio. Ma sempre di consumatori stiamo parlando. Sebbene, più o meno consapevolmente, prendano le mosse dalla cultura indie-rock degli anni ’90, che si proponeva quale anticonsumista, gli hispters non sono che tardo-capitalisti. Figli  del loro tempo.

Nessun commento:

Posta un commento