di Annalisa Terranova (Secolo d'Italia)
Un libro a metà tra ricostruzione storiografica e romanzo ricorda la
grande regista tedesca Leni Riefenstahl a dieci anni dalla morte
(avvenuta il 9 settembre del 2003). Firmata da Lilian Auzas, la
biografia (Riefenstahl, Elliot, pp. 220, euro 18,50) “assolve” le
simpatie politiche della protagonista e salva l’artista la cui
reputazione nel dopoguerra era ormai irrimediabilmente compromessa. Di
recente anche un altro libro, Marlene e Leni (Feltrinelli), di Gian
Enrico Rusconi, aveva messo a fuoco il ruolo della Riefensthal nella
Germania degli anni Trenta, affiancandola alla “rivale” Marlene
Dietrich.
L’amore per il teatro e per il dramma è stato una costante nella vita di
Leni Riefenstahl. Lei stessa lo confessa nelle sue Memorie, pubblicate
nel 1987 (quindici anni prima della morte), pagine sulle quali ha
faticato cinque anni, rimettendo ordine e forma in un’esistenza che si
presenta come una sceneggiatura drammatica, con picchi di tragedia su
cui a lungo resteranno accesi i riflettori della storia. Autrice di
capolavori che costituiscono pietre miliari della storia del cinema,
bollata nel dopoguerra come “la regista di Hitler”, dotata di una
straordinaria forza di carattere che l’ha indotta a imbarcarsi in più di
un’avventura difficile, un po’ diva capricciosa e un po’ amazzone
emancipata incurante dei pregiudizi, tedesca in modo irrinunciabile e al
tempo stesso cosmopolita e affascinata dal viaggio come scoperta,
capace come nessun altro di costruire un’estetica dell’immagine in
movimento, Leni Riefenstahl resta alla fine, per chi legge la sua
autobiografia, inafferrabile e sfuggente, come se solo a lei spettasse
l’onere e l’onore di squarciare il velo sul vero copione, sul
personaggio reale, sulla “bella maledetta” (titolo del primo film da lei
diretto, di cui era anche interprete).
La prima passione è per la danza: si iscrive al corso per principianti a
sedici anni, ma saranno i “film di montagna” di Arnold Fanck a fare di
lei una vera e propria diva del cinema. Nel primo di essi, La Montagna
dell’amore, Leni ripropone la sua danza: sequenze da cui Hitler si
dichiarò in seguito letteralmente affascinato. La montagna resterà
sempre per Leni il rifugio ideale dove dimenticare ansie, disavventure e
dispiaceri. Un archetipo del “luogo sublime” secondo la definizione del
filosofo Remo Bodei: “Lo sguardo dall’alto sull’abisso ricorda il
mistero insondabile dell’esistenza; il sentirsi sospesi tra terra e
cielo; la lontananza dai miasmi della vita sociale e dalle meschinità
quotidiane”.
Poco soddisfatta delle sue performance di attrice, si dedica al progetto
di realizzare un film tutto suo. “Sentivo l’urgenza di creare qualcosa
di totalmente mio. Cominciai allora a sognare e dai miei sogni nascevano
immagini; fra le nebbie dell’indistinto riconobbi il sembiante di una
giovane che viveva tra le montagne, una figlia della natura”. La giovane
sarà appunto Junta, la protagonista della Bella maledetta (Das blaue
Licht, 1932), la “strega” perseguitata dall’odio delle donne e dalla
bramosia degli uomini che si arrampica al chiaro di luna verso una
grotta di cristalli che emana una misteriosa luce blu. In quello stesso
anno si colloca il primo incontro con Hitler, sollecitato dalla stessa
Riefenstahl, che pure non era iscritta allo Nsdap e mai ne avrebbe preso
la tessera. Il motivo? La curiosità, a detta dell’artista, che
riferisce di un colloquio privato in un’atmosfera colloquiale, in cui il
capo del nazismo avrebbe avuto tempo per corteggiarla e per parlarle
del suo amore per la pittura e in cui lei gli avrebbe rivelato i dubbi
che nutriva sui suoi pregiudizi razziali. Il Führer le avrebbe detto:
“Quando saremo al potere, lei realizzerà i miei film”. Anni dopo, per
giustificarsi, spiegherà: “Ripudiavo senza riserve il suo razzismo, ma
approvavo totalmente i suoi progetti socialisti. In molti credevamo che
il suo razzismo avesse soltanto valore teorico, di pura propaganda…”. Ma
al di là dell’aspetto politico di quel rapporto, fiorì subito la
leggenda di una relazione tra la regista e Hitler, un gossip che nel
dopoguerra fu usato come arma di condanna (nelle false memorie di Eva
Braun venne scritto che Leni danzava nuda per il Führer mentre l’amante
ufficiale lo attendeva in camera) anche se i tribunali, cui l’artista
si rivolse per difendersi dalle diffamazioni, hanno sempre riconosciuto
l’infondatezza di tali accuse.
La natura sulfurea del nazionalsocialismo per Leni è invece tutta
racchiusa nella figura di Joseph Goebbels, “una specie di redivivo
Mefistofele”, “una persona pericolosa”, un uomo “volgare” e di “cattivo
gusto”, un corteggiatore insistente che lei avrebbe più volte respinto e
umiliato e che l’avrebbe ricambiata boicottando il suo lavoro per tutta
la durata del Terzo Reich. Nei diari del ministro della Propaganda, del
resto, non si leggono molti complimenti per Leni Riefenstahl, più volte
definita un’isterica, una donna impossibile e che non si piega agli
ordini.
Dal sodalizio con Hitler, un po’ subìto e un po’ cercato, sicuramente
mai rinnegato del tutto dall’artista, nasce nel 1934 Il Trionfo della
volontà, il film sul congresso del partito nazionalsocialista a
Norimberga, eccezionale documento sul regime dell’epoca con un registro
narrativo singolare: le immagini e il sonoro (Wagner unito a canti
nazisti e marce militari) sono infatti autosufficienti e non c’è bisogno
di nessun commento. La città che si risveglia, la folla festante, i
monumenti, le donne che sorridono sono rappresentati attraverso il
“punto di vista” di Hitler. L’utilizzo di moderne tecnologie per
supportare l’apparato rituale e simbolico del film che celebra la
fusione quasi mistica di un popolo con il capo indiscusso attraverso una
sinfonia di emozioni sapientemente dosata nel gioco di riprese e primi
piani, rende la pellicola un potente strumento di coinvolgimento dello
spettatore nella “visione” del Terzo Reich, un elemento che non fu mai
perdonato a Leni Riefenstahl la quale, a sua volta, non ha mai rinnegato
il suo film. In occasione del suo novantesimo compleanno, nel 1992,
spiegava che il suo lavoro era stato in fondo quello, fortunato e
terribile, di una testimone della seduzione collettiva esercitata dal
nazionalsocialismo: “Ho solo spiegato come mai milioni di tedeschi hanno
creduto in lui”. L’impatto del documentario celebrativo del Reich fu
enorme e colpì anche Benito Mussolini, che propose all’artista di
realizzare un film sulla bonifica delle paludi pontine ricevendo un
cortese diniego: “La ringrazio per la fiducia, eccellenza, ma sto
preparando un film sulle Olimpiadi di Berlino e temo che questo lavoro
mi terrà occupata per almeno due anni”.
I Giochi olimpici si svolsero dal 2 al 16 agosto 1936 e furono
protagonisti del capolavoro di Leni Riefenstahl, Olympia, girato con
l’aiuto di quaranta operatori e una cinquantina di assistenti. La sfida
di rappresentare in una fusione di immagini armoniche la competizione e
la bellezza dei corpi, la volontà di vittoria, la tensione della prova,
l’entusiasmo del pubblico, l’intenzione dell’atleta di superare se
stesso fu ampiamente vinta dalla regista con una serie di innovazioni
soprendenti: mise a punto un dispositivo equivalente al moderno zoom per
adeguarsi alla rapidità degli spostamenti, fece scavare trincee nello
stadio per riprendere le gare dal basso, grazie a un carrello verticale
subacqueo gli operatori potevano riprendere i tuffi seguendo
l’evoluzione in aria e l’immersione nella piscina, per le riprese aeree
legò le macchine da presa a un pallone librato in aria offrendo
ricompense a chi avesse restituito il materiale filmato, cosa che
puntualmente avvenne, e ancora piccole cineprese vennero fissate alle
selle degli atleti per riprendere le gare di equitazione. Giustamente
celebri le sequenze della maratona, dove si traduce in immagini, con
l’aiuto della colonna sonora di Herbert Windt, la volontà di andare
avanti a dispetto della stanchezza del corpo.
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