di Mario M. Merlino (ereticamente.net)
Oggi Charonne è stata integrata all’interno del tessuto urbano di Parigi
e trasformatasi in una banlieu come lo sono le periferie di tante
capitali d’Europa. Lo si avverte immediatamente appena si accede
all’esterno della fermata della metropolitana. Il grigio dell’anonimo,
dello squallore, di un non so che di sporco che ti avvolge e che penetra
nella mente nel corpo e che non si configura solo per i sacchi di
immondizia e le carte gettate a terra. Eppure c’è un angolo che s’è
protetto, si è conservato ed è ciò che attira i visitatori, beh, diciamo
un tipo specifico di visitatori. Ad esempio quelli che hanno letto I
sette colori, coinvolti ed emozionati e affascinati da quello spazio ove
si svolge una delle prime e fondamentali scene e, dal 1957, tomba del
suo autore.
E’ la chiesa di Saint-Germain- de Charonne, nel XX arrondissement, rue
de Bagnolet…’Videro a mezza costa, improvvisamente, spiccare la piccola
chiesa col suo campanile e il suo galletto, relitto meraviglioso di un
antico villaggio. Sulla sua vetta, fra case moderne, essa sola serba il
ricordo dei borghi di periferia fra i lillà, e delle antiche pene umane.
Davanti ad essa è stata allargata la piazza, alla quale si sale sempre
per una gradinata di pietre dove, nello Charonne paesano, dovevano
essere belli a vedere i grandi matrimoni e le prime comunioni. Ma le
cose non sono tanto cambiate, e si dimenticano le case alte di mattoni
rossi per quella torre di pietra grigia riparata col cemento, per il
recinto che domina la strada, e dal quale si affacciano alberi e croci.
Essa sola, infatti, credo, in Parigi, ha serbato il suo piccolo cimitero
invaso dalle erbe, il suo cimitero di campagna dove già non v’è più
posto per i futuri morti’. Se questa è la descrizione del luogo, in esso
i due protagonisti, Caterina e Patrizio, disvelano il sentimento, che
stava nascendo in loro, sfiorandosi la mano. Con gesto delicato e
leggero perché lo scrittore amava questi toni, la leggerezza appunto,
che egli riteneva (purchè non trattasse delle scelte di fondo, di stile
interiore potremmo dire) espressione della giovinezza dei suoi incanti
dei sogni, priva di certa pesantezza dell’essere.
Il 6 febbraio 1945, alle ore 11 (così dal verbale d’esecuzione redatto
dal suo avvocato Jacques Isorni) il dramma si è consumato. Robert
Brasillach è stato prelevato dal carcere di Fresnes e condotto al forte
di Montrouge, legato al palo e fucilato da un plotone composto da dodici
uomini. Pallido con la sciarpa rossa al collo e la fotografia della
madre sul petto, con voce alta e gli occhi rivolti verso il cielo.
‘Coraggio!’ e ‘Viva la Francia!’ sono state le sue ultime parole. Su un
foglio di carta Isorni raccoglie la grossa goccia di sangue che gli
scivola dalla fronte ‘per portarla a quelli che l’amano’…
Il suo corpo viene portato a Thiais, là dove le tombe non portano nome,
dove è vietato erigere una stele o deporre soltanto un fiore. Nessuna
pietà per chi è stato condannato a morte. Poi lo stesso giovane che, in
tribunale, alla lettura del verdetto aveva gridato tra il pubblico ‘E’
una vergogna!’ (pronto Brasillach gli aveva risposto ‘No, è un onore!’)
gli cede un posto nella tomba di famiglia al Père Lachaise, fino appunto
al ’57 quando l’amico e cognato Maurice Bardèche riesce ad ottenere la
traslazione a Charonne, dove ha trovato definitiva pace con la madre
Marguerite Brasillach-Maugis. Una tomba che è un tripudio di fiori…
perché quella goccia di sangue dal colore vermiglio è tanto simile al
sole che, sempre e comunque, s’impone sulle tenebre, la menzogna,
l’ottenebramento.
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