di Mario Vattani
Siamo
ormai nell’ultimo quarto dell’Anno del Serpente, e ho riacceso giorni
fa il registratore digitale che avevo utilizzato per le tracce-base dei più recenti album di Sottofasciasemplice: Idrovolante e Filospinato. Ma
nella luce arancione del riquadro delle tracks è apparso invece il nome
dell’ultimo progetto registrato, segnato come “Kagoshima”.
E allora mi sono ricordato che proprio a Kagoshima, nella patria di Saigo Takamori
(uno dei samurai artefici della rivoluzione Meiji, poi indomabile capo
della ribellione di Satsuma) in una notte di primavera avevo composto le
tracce di base di questo pezzo, che ebbe poi un percorso diverso dai
precedenti. Circolò infatti nell’estate del 2008, e doveva teoricamente
essere l’ultimo brano di Sottofasciasemplice: “Nazione”.
Un’edizione insolita, uscita in un contesto gotico o forse dark, e pubblicata solo su vinile, peraltro con un’etichetta diversa.
Forse un modo per togliere il disturbo senza farsi troppo notare,
filando all’inglese… e non a caso la versione originale, “Nation”, era
proprio in inglese, e il testo in italiano ne è la traduzione.
Strano anche il concetto della canzone stessa, per una band che nella
“musica alternativa” fu certe volte considerata anarcoide e
provocatoria: nel testo si raccontava la rinuncia alla personalità, al
volto, all’espressione, il sacrificio della propria identità per un fine più alto, la Nazione.
Stavolta la “visione” – perché io parto sempre da quelle per
scegliere poi suoni, ritmica, strumentazione e infine i testi – era
quella di salire al crepuscolo i gradini di marmo di una sorta di Lincoln Memorial.
Nessuno intorno.
Nessuna sagoma tra gli alberi neri sui prati circostanti.
E in quel tempio repubblicano, assente l’enorme e ingombrante statua del
sedicesimo Presidente americano, ascoltavo in piedi da solo la voce
della Nazione, che proveniva da un altare imponente ma polveroso.
Dietro, le bandiere immobili, di colori irriconoscibili nella penombra.
La mia bandiera personale, a terra di fronte all’altare, insieme a tutti gli altri oggetti che mi definivano.
Mi parlava quindi la Nazione con una voce femminile ma buia, inquietante, a tratti isterica, quasi una Miss Havisham, la sposa abbandonata del romanzo di Dickens.
Nella versione in inglese poi, l’atmosfera nel tempio diventava quasi
morbosa; un particolare nordico che nel testo italiano si perde, come si
disperde la nebbia quando sorge il sole mediterraneo… Ma anche
nell’edizione definitiva il sacrificio, come un rito in cui si donava se
stessi, avveniva dopo il tramonto: “..chi vuole essere con me stasera,
resterà con me per sempre..”.
La canzone “Nazione” fu pubblicata solo in italiano, e mi
meravigliai di trovarla presto su internet e Youtube, nonostante si
trattasse di una registrazione su vinile. Dopo questi anni,
quella canzone rimane per me il racconto di una cosa vista ma non fatta,
come un racconto del terrore in cui lo scrittore fa aprire al
protagonista una porta che lui stesso però non aprirebbe mai, nonostante
la curiosità.
Sono molte le canzoni di Sottofasciasemplice che raccontano cose viste, o immaginate, ma mai fatte.
I protagonisti che animano i vari episodi di quell’avventura musicale
sono delle forme mascherate. Hanno il volto fasciato, o portano un elmo
arrugginito, vecchie uniformi, a volte addirittura una corona di ferro
che poi precipita nella sabbia. Io do loro la voce che altrimenti non
avrebbero. Mi immedesimo e faccio loro raccontare, come un medium
ritmico, la loro storia, il loro fallimento, la loro condanna. Di quei
personaggi non rimane nulla – oppure non sono mai esistiti – ma li anima
lo stesso un’infinita voglia di catarsi o di rivalsa. Li fa vibrare la
rabbia di non poter parlare ancora, come quella disperazione che fa
ritornare nel mondo dei vivi dall’oltretomba i fantasmi o gli spiriti
che non trovano riposo. A vederli insieme sono una bella collezione di
mostri: a volte deformi, spesso disumani, sempre trasfigurati.
In ogni modo sono delle rappresentazioni, dei racconti.
E negli album di Sottofasciasemplice, che sono sempre dei percorsi con
uno o più protagonisti, il più delle volte c’è un brano finale – spesso
in antitesi, anche musicalmente, con il resto del disco – in cui si
accendono le luci, e il medium, spossato dall’esecuzione, ridiventa se
stesso, e lo dichiara.
In alcuni casi questo momento di verità è evidente, come in “Senza
Croci” (Crociato, 2000): sul palco ormai vuoto il pubblico capisce che
quelle che sembravano armature, armi, bandiere, personaggi mitologici,
erano in realtà oggetti di cartapesta e altri attrezzi teatrali,
strumenti utilizzati per una rappresentazione.
Io non ho mai pensato che si trattasse di musica “politica”. Di oltre
50 brani distribuiti su cinque album dal 1995 ad oggi, sono pochissime
le canzoni che hanno dei chiari riferimenti di critica sociale, o che
affrontano in modo diretto dei temi storico-politici.
Certamente, alcuni testi sono rivolti a una comunità militante, che
riconosce un vocabolario nato da esperienze comuni, e mi fa piacere che
negli anni molti giovani e meno giovani siano rimasti attratti o
incuriositi da questo progetto molto personale… talmente personale che
suono quasi sempre io tutti gli strumenti, ad eccezione forse dei fiati e
della batteria.
Rivedendo oggi le tracce registrate molti anni fa a Kagoshima, ho constatato che, a differenza del protagonista di “Nazione”, io non ho rinunciato a me stesso, alle mie passioni, alla mia personalità e alla mia libertà di esprimermi e raccontare. E non ho nessuna intenzione di farlo, come non dovrebbe farlo nessuno di noi.
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