sabato 29 giugno 2013

Comunità: l'ultima speranza...



di Alessio Mannino

L’attualità fa pena, e mi riferisco in particolare a quella italiana, paludosa, noiosa, deludente, avvilente. Mi scuseranno i lettori se oggi mi prendo una pausa dal commentare i fatti di politica interna e parlo di un oggetto scomparso dall’orizzonte del dibattito quotidiano: la filosofia. Sia chiaro: da orecchiante, quale è il sottoscritto.
La filosofia dovrebbe essere, assieme alla storia, la base culturale di un buon cittadino che vuole impegnarsi in prima persona nell’attività più alta: la politica.
In questi tempi di passioni tristi e ignoranza crassa, il personale politico non solo ha mediamente una cultura generale bassa, ma in genere sa quattro acche in croce di due materie che a scuola vengono relegate ad un ruolo secondario, inferiore all’inglese idioma della globalizzazione opprimente. Questo perché le conoscenze umanistiche, e in particolar modo le due materie di cui sopra, nonostante il bla bla dei convegni sono shit, per le esigenze del dio Mercato. E in Italia siamo ancora a livelli sopportabili, pensate un po’.
Ecco, vorrei parlare proprio dell’ideologia dominante dell’Economia (capitalismo assoluto, la chiama sulla scia di Preve l’ottimo Fusaro, uno dei pochi nouveau philosophes critici del piattume imperante: leggetevi il suo “Minima mercatalia”). Per contrastarla serve un pensiero forte da contrapporle. Ma niente sofismi, teoremi e sistemi: urge una filosofia d’azione, nel senso più ampio: filosofia politica e di vita. Perché contro l’irrazionalità del nostro modo di vivere, molto razionalista ma folle nel suo ridurre ogni cosa al costo di mercato, l’unica via di salvezza può essere la saggezza, una sapiente costruzione di concetti teorici e regole pratiche basate sul sentimento, sull’istinto di comunità, sugli insegnamenti della natura.
Di una rivoluzione come restaurazione necessitiamo come il pane. Un ordine interiore e comunitario insieme, perché gli sdegnosi “autarchi” chiusi nel proprio io non sono che il rovescio snob dell’individualismo gretto e pecoraio. Rivoluzionario, perché distruttore dell’esistente fin nella sua più intima logica, che è l’arida contabilità del denaro. Restauratore, perché in latino “rivoluzione” significa ritorno, e l’uomo post-moderno non deve fare altro, in fin dei conti, che riscoprire i suoi bisogni più elementari e umani, resi irriconoscibili dall’edonismo pompato da un’economia in perenne sovraccarico.
Il nostro non è il tempo per costruire: è il tempo per distruggere. Ma per poter fare tabula rasa dei falsi idoli, alle masse occorrono valori in base ai quali usare il martello, e per crederci bisogna vedere una luce in fondo al tunnel. La luce è una visione del mondo, fatta di poche semplici idee che chiunque possa capire e fare proprie perché le sente sue. Bando all’intellettualismo, dunque, per quanto lucido e veritiero. Abbiamo sete di una terra promessa a cui aspirare. Non un altro sol dell’avvenire o paradiso terrestre, non l’ennesimo “uomo nuovo” o impero millenario. Quel che manca per far ri-circolare il sangue nelle vene è un mito da interiorizzare, un orizzonte ideale che metta in moto la volontà, che dia l’immagine plastica della liberazione.
Mito: attenzione, non tanto, o non solo, in senso soreliano, cioè come méta irrazionale, motore di azione politica anzitutto, nel senso originario. Mito, di credenza mistica nella propria radice: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’animo umano», scriveva Simone Weil. La libertà sbracata in licenza nasconde in realtà la manipolazione più totalitaria che sia mai esistita – l’illusoria libertà di consumare l’esistenza come una merce. La direzione opposta è il recupero dell’etica. Volendo tradurre questo concetto in ambito sociale, il suo significato sta nel dotarsi del fine proprio dell’uomo-animale politico: la virtù. Bisogna tornare ad Aristotele, ricavandone l’insegnamento utile a sanare la malattia moderna dell’individualismo. Questo insegnamento, come hanno osservato già da alcuni decenni gli esponenti della corrente neo-aristotelica (non casualmente sorta negli Stati Uniti), può essere definito con la formula di comunitarismo.
Con il fallace argomento che la mia libertà finisce dove comincia quella altrui, restringono sempre di più la mia fino a schiacciarla. La Libertà è semplicemente poter esprimere ciò che si è. Il suo limite non sta nella libertà del prossimo, ma nei beni comuni, ovvero nel corpus di regole, di soggetti e di oggetti appartenenti alla comunità. Questa storia per cui posso fare tutto quel che mi pare purché non rechi danno al mio dirimpettaio presuppone una società di individui separati, isolati, auto-centrati, totalmente presi da sé stessi. È la concezione del singolo come privato, privo di legami, atomo indipendente e assoluto. Una monade leibniziana, o se si preferisce un idiota in senso greco.
Puro delirio. Gli esseri umani di ogni epoca e latitudine non sono mai venuti al mondo senza un padre e una madre, senza una famiglia, senza una società d’appartenenza, senza tradizioni, costumi, modi e visioni di vita predeterminati. Cioè senza quei fatti, dati a priori, che prescindono dal concepimento e dalla volontà. Ciascun uomo e ciascuna donna s’inserisce fin dal suo primo vagito in una trama di ciò che è venuto prima di lui o di lei, e non potrebbe essere diversamente. Il liberalismo, ideologia giustificatrice del borghese capitalista, assume invece come pre-giudizio un individuo che viene dal nulla e diviene “qualcosa” (che so: un adoratore di Satana o un geometra) esclusivamente per suo insindacabile arbitrio. Ora, questa, oltre ad essere una stupidaggine infondata e materialmente infattibile, è una belluina truffa filosofica, che come tutte le truffe danneggia il truffato, ossia chi ci crede. La sostanza che rende umano un uomo è, al contrario, la sua predisposizione alla socialità.
Solo una bestia o un dio può vivere da solo. L’uomo è, per sua natura, un animale politico. Chiaro che gli uomini, insomma, sono mediamente dei pochi di buono, guicciardinianamente fissati sul proprio particulare. Ma su questa parte individualistica, distruttiva, ferina, fa aggio di gran lunga l’altra, l’animale sociale, che si accorda, coopera, cerca il calore e la sicurezza di un insieme più grande, fa progetti e immagina opere impossibili da realizzare senza il concorso altrui.
Attenti: non è l’idealizzazione rousseauiana del buon selvaggio. Ambizione, gloria, sete di ricchezza, fame di potere, ricerca del piacere sono tutti potenti stimolanti del comunitarismo, a patto di essere limitati e incanalati al servizio della collettività. Né Hobbes né Rousseau, ma il vecchio, insuperato e buon Aristotele, che andrebbe recuperato su tutta la linea per ciò che riguarda l’etica e la politica. Pensare che ogni capacità abbia un fine che si tratta di scoprire e sviluppare al meglio, a mio parere costituisce il più onesto e bel modo di battere la disperazione del non-senso. Onesto, perché se pure, se fossimo nichilisti, presupponessimo che ogni senso, ogni ideale, ogni virtù morale è una pia illusione mistificatrice, individuare comunque una finalità interna e immanente a ciascun essere, vuol dire essere sinceri e avere i piedi per terra.
Ora, se l’ottica giusta è, realisticamente, estrarre dalla politica il suo senso intrinseco, questo non può che essere il vivere bene assieme, lo stare bene in comunità: il Bene comune. Presupposto indispensabile per metterlo in pratica è la libertà. L’uomo libero è colui che si auto-governa, che è contemporaneamente sovrano e suddito, ossia cittadino. La condizione di libero sfocia necessariamente nella ricerca di obbiettivi ritenuti validi e positivi per tutta la cittadinanza, perché altrimenti non avrebbe alcun senso, sarebbe una libertà vuota, visto che si agisce sempre in un dato contesto sociale. Si potrebbe dire: libero di far che, se non di realizzare il proprio valore secondo i valori del gruppo cui si appartiene? Sulla scia del filosofo del Liceo, il neo-comunitarista americano MacIntyre sintetizza alla perfezione questo concetto: «il mio bene in quanto uomo coincide assolutamente con il bene di quegli altri con cui sono legato in una comunità umana».
Ecco la via per superare la falsa dicotomia fra interesse privato e collettivo: la loro è una coincidenza di principio. Più mi impegno per fare il bene del mio prossimo, più faccio il mio. Più sono libero di essere me stesso, nel senso di coltivare il mio valore, maggiore è il servizio che rendo alla comunità. È un ribaltamento totale rispetto alla mentalità utilitaristica del liberale: per costui il pericolo da sventare è danneggiare l’altro, dando per scontata un’innata asocialità smentita dai fatti, mentre per il comunitarista la bussola è la libertà che diventa concreta e trova senso in attività associative e pubbliche, in scopi comuni con gli altri cittadini. Una libertà nella comunità, non fuori di essa o contro di essa.
Di qui il rifiuto radicale della grettezza, tipicamente moderna, di ridurre tutto ad una valutazione in termini di costi e ricavi, di profitti e di perdite. L’economia elevata a criterio totalizzante della vita sulla Terra: ecco l’ideologia del nostro tempo. A cui va contrapposta l’humanitas, l’etica dei valori intesi come l’eccellenza in ciascun campo. In politica, questo richiede «la capacità di giudicare e di fare la cosa giusta nel luogo giusto, al momento giusto e nel modo giusto» (MacIntyre). Non essere ricchi, belli, telegenici, raccomandati, ma bravi nelle competenze necessarie a fare politica: saper scrivere, saper parlare, conoscere la storia e le leggi, capire le esigenze popolari, immaginare soluzioni. E, prima e al di sopra di tutto ciò, lottare per il bene collettivo attraverso il conflitto tra idee – questa è la sola ragione per preferire la democrazia a sistemi di addomesticamento politico: perché dovrebbe permettere ai migliori di emergere nell’agone politico.
Il nuovo Umanesimo passa di qui, e solo di qui. E da domani torniamo a parlare del volgo profano.

venerdì 28 giugno 2013

Scritti su Venner. Il ricordo di de Benoist: “Lo stile di un cavaliere dal cuore ribelle”


Le ragioni per vivere e le ragioni per morire sono spesso le stesse. Tale fu innegabilmente il caso di Dominique Venner che agì cercando di conciliare profondamente la sua vita e la sua morte. Scelse di morire nella maniera che, diceva, costituisse la via d’uscita più degna in certe circostanze ed in particolare lì dove le parole risultano impotenti nel descrivere ciò che si prova.

da barbadillo.it

* Stesso stile per vivere e per morire. Traducendo il discorso che Alain de Benoist ha pronunciato nella commemorazione parigina per Dominique Venner,Barbadillo.it prosegue nella diffusione di cultura non conformista e testimonia una via differente nel mondo delle idee: quella degli “eroi dell’Iliade” che “non dispensano alcuna lezione morale, forniscono esempi etici e l’etica non è certo dissociabile da un’estetica”. Venner aveva scelto di vivere come un cavaliere che “marcia e marcerà, continuerà sempre a marciare verso il suo destino, verso il suo dovere, tra la morte e il diavolo”. (michele de feudis)
Il ricordo di Alain de Benoist
Dominique Venner è morto alla fine come aveva vissuto, nella stessa volontà, nella stessa lucidità, e ciò che colpisce maggiormente tutti coloro che l’hanno conosciuto è vedere fino a che punto tutta la sua condotta di vita si pone in una linea sia chiara che diretta, una linea perfettamente rettilinea, di un’estrema dirittura.
L’onore oltre la vita
Il gesto compiuto da Dominique Venner è evidentemente dettato dal senso dell’onore, l’onore oltre la vita, e, anche gli stessi che per ragioni personali o meno, rinnegano il suicidio, gli stessi che al contrario di me non lo reputano degno, devono rispettare il suo gesto, poiché si deve rispettare tutto ciò che è fatto per senso dell’onore.
Non vi parlerò di politica. Nel luglio 1967, Dominique Venner aveva definitivamente rotto con tutti i tipi d’azione politica. Osservava, da osservatore attento, la vita politica e faceva conoscere, ben inteso, il suo sentimento. Ma credo che l’essenziale per lui fosse altrove, e molte cose già dette lo mostrano tutt’oggi fortemente.
Al di sopra di tutto Dominique Venner poneva l’etica e questa prima considerazione era già sua fin dai tempi in cui era un giovane attivista. E’ rimasta sua, finché a poco a poco il giovane attivista si è trasformato in storico, storico meditativo, come si definiva. Se Dominique Venner s’interessava fortemente ai testi omerici che riconosceva come testi fondatori della grande tradizione immemoriale europea, riteneva che l’Iliade e l’Odissea fossero innanzitutto ( l’) etica: gli eroi dell’Iliade non dispensano alcuna lezione morale, forniscono esempi etici e l’etica non è certo dissociabile da un’estetica.
E’ il bello che determina il bene
Dominique Venner non faceva parte di coloro che credono che il bene determini il bello, era tra coloro che pensano che il bello determini il bene; credeva nell’etica ed i giudizi che aveva sugli uomini non erano in funzione delle loro opinioni o idee, ma in funzione della loro più o meno grande qualità d’essere, in primis, di quella qualità umana per eccellenza che riassumeva nel termine: compostezza.
La compostezza
La compostezza è un modo di essere, un modo di vivere e di morire. La compostezza è uno stile di vita di cui aveva ben parlato ne “Il Cuore ribelle”, il suo libro apparso nel 1994 e sicuramente anche in tutte le sue opere, penso più in particolare al libro che aveva pubblicato nel 2009 sullo scrittore tedesco Ernst Junger; in questo libro Dominique diceva molto chiaramente che, se Junger ci offriva, ci offre un grande esempio, non è solo attraverso i suoi scritti ma anche perché quest’uomo, che ha avuto una vita così lunga e che è morto a 103 anni, non ha mai disatteso le esigenze della compostezza.
Dominique Venner era un uomo riservato, attento, esigente e prima di tutto esigente con sé stesso; aveva interiorizzato in qualche modo tutte le regole della compostezza: mai lasciarsi andare, mai esporsi, mai mostrarsi, mai commiserarsi perché la compostezza richiama e si allinea alla misura. Evidentemente, non appena si evoca tutto ciò, si rischia di apparire agli occhi di molti come l’abitante di un altro pianeta. Nell’epoca degli smartphones e dei Virgin Megastores, parlare di obiettività, di nobiltà di spirito, di altezza dell’anima, di compostezza, vuol dire utilizzare parole il cui senso stesso sfugge a molti, ed è senza dubbio la ragione per cui i Beoti e Lillipuziani che redigono quei bollettini parrocchiani del (ben-pensare), divenuti i grandi e potenti media, oggi sono stati incapaci in larga parte di comprendere il senso stesso del suo gesto che hanno cercato di spiegare con considerazioni mediocri.
Una forma di protesta contro il suicidio dell’Europa
Dominique Venner non era né un estremista, né un nichilista, né soprattutto un disperato. Le riflessioni sulla storia alle quali aveva dato sfogo in un così lungo tempo, l’avevano portato, al contrario, a sviluppare un certo ottimismo. Ciò che pensava della storia è che essa è imprevedibile, che è sempre aperta, che fa gli uomini e che la volontà degli uomini la fa ugualmente. Dominique Venner rifiutava il fato e tutte le forme di disperazione.
Direi paradossalmente, poiché non lo si è sottolineato sufficientemente, che il suo desiderio di morte era una forma di protesta contro il suicidio, un modo per protestare contro il suicidio dell’Europa al quale egli assisteva da tempo.
Un samurai d’Occidente
Dominique Venner non era più un nostalgico, ma era un vero storico che s’interessava, di certo, al passato in vista del futuro; non faceva dello studio del passato una consolazione o un rifugio; riteneva semplicemente che i popoli che dimenticano il proprio passato, che perdono la coscienza stessa del proprio passato, si privano con essa di un avvenire. L’uno non sussiste senza l’altro: il passato e il futuro sono due dimensioni dell’attimo presente ma non importa quali: delle dimensioni del profondo. Di conseguenza a Dominique Venner giungeva alla mente una serie di immagini e ricordi. Aveva il ricordo di eroi e di Dei omerici; aveva il ricordo dei vecchi Romani, di coloro che l’hanno preceduto sulla via della morte volontaria: Catone, Seneca, Regolo e tanti altri. Aveva in memoria gli scritti di Plutarco e le storie di Tacito. Aveva in testa il ricordo dello scrittore giapponese Yukio Mishima, la cui morte per molti aspetti somiglia profondamente alla sua e non è certamente un caso che il libro che avrebbe pubblicato, che sarebbe apparso di lì a qualche settimana e che sarà pubblicato da Pierre-Guillaume de Roux s’intitoli “Un samurai d’Occidente”: un samurai d’Occidente! Nelle immagini di copertina di questo libro, si scorge una figura, un’incisione: “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”, di Dürer. Dominique Venner ha scelto questa incisione volutamente. E’ a questo personaggio del cavaliere che Jean Cau, da un po’ di tempo, aveva consacrato un libro ammirevole che portava peraltro questo titolo: “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”. In una delle sue ultime cronache, redatte qualche giorno prima di morire, Dominique Venner ha scritto precisamente un testo in omaggio a questo cavaliere che, lui dice, marcia e marcerà, continuerà sempre a marciare verso il suo destino, verso il suo dovere, tra la morte e il diavolo.
Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo: inciso da Dürer nel 1513
Ecco cosa volevo dirvi in ricordo di Domique Venner che ora è partito in una grande caccia selvaggia, in un paradiso dove si vedono volare le oche selvagge. Lo conoscevo da cinquant’anni e coloro che l’hanno conosciuto dicono senza alcun dubbio che hanno perso un amico; credo che abbiano torto, credo che debbano sapere che dal 21 maggio 2013 alle ore 14:42 Lui sarà ormai necessariamente sempre là. Sempre là accanto ai cuori ribelli e spiriti liberi paragonati da sempre all’eterna coalizione dei Tartuffe, Trissotin e Torquemada.
(traduzione per Barbadillo.it di D.D.M.)

 
 

mercoledì 26 giugno 2013

Da domani in libreria “Fino alla tua bellezza” di Gabriele Marconi. Ecco il prologo...



Tratto da barbadillo.it


Brihuega, 16 marzo 1937. Notte.


«“A lungo mi sono coricato di buon’ora…”. Mmh, brutta cosa la vecchiaia!».
«Ma va’ in mona, tu e il tuo Proust: è questa pioggia che m’è entrata nelle ossa!».
«Non è il mio Proust», precisò Giulio, «e sei tu che non hai più il fisico».
«Tutti muscoli…».
«Vabbè che ti sei sempre lamentato del fango… Oh, è inutile che ridi perché è la verità vera!».
«No, è che stavo ripensando a Dado».
«Dado… Incredibile, eh? Ha un concetto ben strano di menefreghismo: dove c’è casino c’è lui!».
«E allora noi?».
«Noi? Perché, mi hai mai sentito dire che non me ne frega niente di niente? E tu hai mai detto una cosa del genere? È Dado che ha sempre giurato di fregarsene di tutto, e invece…».
Marco si tirò su, sedendosi a gambe incrociate sulla coperta:
«Usti, erano quasi vent’anni che non lo vedevo… io sono identico a prima, a parte il pizzo, ma lui…».
Giulio ridacchiò: «Sì, tu e il tuo gemello nascosto sotto la camicia!».
«Ci tengo ai miei addominali, dovrò pure proteggerli in
qualche maniera. Insomma, lui invece è cambiato un bel po’…
la faccia scavata, la barba, i capelli lunghi, eppure…».
«Avevamo vent’anni, amico mio. Vent’anni. Adesso ne abbiamo quasi il doppio».
«Appunto, e ci siamo riconosciuti alla prima occhiata. Non è incredibile?».


Giulio si tastò le tasche, poi frugò nella borsa di tela del Modello 33 (che tutti usavano come tascapane dopo aver tolto l’inutile maschera antigas) e pescò un pacchetto di Giuba in mezzo alle bombe a mano. Accese due sigarette e ne offrì una a Marco, quindi tirò una lunga boccata. «Se te devo di’ la mia, per me no, non è incredibile», rispose sbuffando il fumo, «certe cose restano per sempre».


«Ma stai buonino… sotto un temporale e nel bel mezzo di una sparatoria? Lui per me era un nemico, un birillo tra mille altri da buttare giù. E invece ci siamo squadrati e siamo scoppiati a ridere, mentre tutto intorno era un bordello del demonio».
«E lui? Lui che ha detto di preciso?». Giulio sapeva già tutto, ma era l’unica cosa divertente capitata da quando avevano cominciato a ritirarsi davanti a Guadalajara, perciò voleva sentirlo di nuovo e sorrise, pregustando il racconto.
 

Marco guardò la sigaretta, accorgendosi solo ora di averla accettata. «Assurdo», ricordò sorridendo. «Mi ha gridato: “Ma pensa te… non ti è bastata la sberla che abbiamo preso a
Fiume?”».


Ma pensa te era il biglietto da visita di Alessandro «Dado» Lazzaroni, un anarchico che con loro due aveva condiviso l’avventura fiumana al seguito di Gabriele d’Annunzio, nel ’19. E
adesso se l’erano ritrovato dall’altra parte della barricata.
«Stavo per rispondergli per le rime», continuò Marco, «ma le pallottole fischiavano di brutto, così l’ho perso di vista e dopo un po’ ho pensato più a riportare a casa la buccia che a capire dov’era lui. Comunque ti sembrerà assurdo, ma sono stato proprio contento di vederlo».
 

Giulio fece un anello col fumo della sigaretta e subito dopo ne infilò un altro al centro del primo (abilità che aveva appreso tanti anni addietro, durante le lunghe, noiosissime settimane di degenza all’ospedale militare di Massaua). «Perché dovrebbe sembrarmi assurdo? È un amico, gli vogliamo bene e tanto basta».
 

Marco ridacchiò scuotendo la testa per un altro ricordo di Dado che gli era tornato in mente. Poi si rivolse di nuovo a Giulio: «Tu quanto tempo era che non avevi sue notizie?».
«L’ultima volta al matrimonio di Nello: mi dissero che era tornato a Fiume, che si era innamorato di una ragazza di là. Pare addirittura che si fosse messo a lavorare per sposarla».
 

«Minchia! Nello e Dado sposati… Alla fine siamo invecchiati davvero, altro che storie».
Giulio sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere, tossendo il fumo che gli era andato di traverso.
Marco lo guardò risentito: «Cazzo ridi, scemo!».
«No, è che…», altre risate e colpi di tosse, «…mi sono ricordato di una battuta identica a questa in un film americano che ho visto al cinema l’estate scorsa. C’erano… c’erano tre amici seduti in salotto, vestiti di tweed, la pipa in una mano e un bicchiere di brandy nell’altra, il camino acceso… uno diceva “siamo invecchiati davvero, amici miei”. E tu… ahahah! Non ci posso credere! Tu che mi dici la stessa cosa con la divisa imbrattata di sangue, seduto su una coperta in mezzo al fango gelato a duemila chilometri da casa e gli aerei che mitragliano e bombardano tutto intorno!».
 

Marco lo guardò per un istante, poi scoppiò a ridere anche lui. Risero insieme. Risero fino alle lacrime, poi il bergamasco la chiuse là. «Bon», concluse dopo essersi calmato, «ma se non fossi invecchiato davvero, bombe o non bombe, fango o non fango, a quest’ora starei bellamente dormendo fregandomene di tutto, invece di star qui sveglio a sorbirmi le tue menate. Quindi come sempre ho ragione io, bigolo!».

martedì 25 giugno 2013

Equitalia “blocca” il conto a un pensionato di Voghera. E da oggi c’è il Grande fratello sui conti correnti...



di Guido Liberati

L’ultima notizia choc su Equitalia arriva da Voghera. Un pensionato di 74 anni che è andato all’ufficio postale per ritirare i suoi 600 euro mensili e si è visto rifiutare la pensione, bloccata dal braccio operativo dell’Agenzia delle entrate. A dare la notizia il quotidiano La Provincia Pavese, che ha ricostruito la vicenda: il pensionato, G.S. è un ex commerciante, che nel corso dell’attività ha accumulato più di una tassa non pagata. Tra mora e arretrati il debito ha superato quota 40mila euro senza. Il pensionato non aveva beni immobili, quindi «l’esattore, a quel punto – scrive il giornale – ha tirato le somme e il denaro è andato a cercarlo nel solo posto dove poteva trovarlo, cioè sul conto corrente di G.S., tremila euro di sudati risparmi, unica fonte di entrata la pensione mensile».

La notizia arriva nel giorno in cui diventa attivo il nuovo Sid (Sistema interscambio dati) che permetterà all’Agenzia delle entrate di acquisire automaticamente le informazioni sui conti correnti degli italiani dagli operatori bancari. Secondo i dati forniti da Equitalia ammontano a 545 miliardi di euro gli arretrati accumulati dal 2000 ad oggi che l’agenzia del fisco dovrebbe riscuotere dagli italiani. A parziale consolazione dei contribuenti le nuove disposizioni contenute nel decreto del Fare che ha rimodellato l’attività della spa. Il decreto prevede innanzitutto l’allungamento dei tempi per rientrare dei debiti con il fisco. Fino ad oggi era prevista la possibilità di rateizzare per 72 mesi (rinnovabili per altri 72 se la situazione del contribuente peggiorava). Ora si arriva fino a 120 rate, cioé a 10 anni e si perde il beneficio se si saltano non più 2 rate ma 8. Entro settembre dovrà inoltre essere ridefinito il finanziamento di Equitalia, dove le spese per gli agenti di riscossione vengono attualmente coperte con un aggio all’8 per cento sulla somma riscossa (4,65% dal contribuente e 3,35% dall’ente che riscuote). Più di tutto però il decreto dispone l’impignorabilità della prima casa. Nella speranza che, episodi come quello denunciato dal pensionato vogherese, non si ripetano.

lunedì 24 giugno 2013

La “primavera francese” di Manif Puor Tous avanza? Il governo Hollande reprime

di Xavier Eman (Barbadillo.it)

Sopraffatto dalla grandezza e dalla persistenza delle contestazioni contro la legge Taubira che regola il matrimonio e l’adozione per le coppie omosessuali (contestazioni che progressivamente oltrepassano la materia in oggetto per trasformarsi in un rifiuto generale della politica di governo …), François Hollande ed i suoi ministri hanno palesemente puntato sulla carta della repressione e sulle punizioni esemplari per stroncare il movimento. Abbiamo dunque assistito in Francia ad un aumento senza precedenti di arresti, custodie cautelari (provvedimenti, questi, protratti anche per diversi giorni), comparizioni immediate e perfino incarcerazioni, tutto ciò con motivazioni assurde e grottesche.


Il fumogeno brandito dai militanti che hanno interrotto la finale del Roland Garros, ad esempio, si è trasformato in arma impropria, con il conseguente fermo di 72 ore tra detenzioni e interrogatori. Abitualmente così passiva e lassista di fronte alle disordini multietnici delle periferie francesi, la Polizia Nazionale ha mostrato improvvisamente un rigore inflessibile ed estremamente “efficace”.
La natura politica della repressione in corso è facilmente dimostrata dall’incredibile disparità tra il trattamento subito dai giovani attivisti del “printemps français ” e quello abitualmente in auge nell’universo “giuridico-poliziesco” francese. Il caso più emblematico è ovviamente quello di Nicolas Bernard Buss, condannato a due mesi di reclusione ed immediatamente incarcerato dopo essere stato fermato a termine di un’azione dimostrativa pacifica, in un paese in cui la sovrappopolazione carceraria è endemica e, nel caso di sentenze inferiori ad un anno, persino per spaccio di stupefacenti o violenza sessuale, non si arriva mai all’esecuzione del provvedimento per mancanza di spazio.


Ebbene, dall’inizio di quest’anno, 82mila sentenze sono rimaste “in attesa di esecuzione”, e tuttavia si è trovato il posto per imprigionare il povero Nicolas, reo di fatti molto gravi come il rifiuto di essersi sottoposto alle prove del Dna e la presunta resistenza a pubblico ufficiale. Chi conosce la realtà della società francese, ed in particolare le zone di illegalità in cui criminali multi recidivi che spacciano, stuprano, aggrediscono le forze dell’ordine senza mai essere seriamente indagati, non può che trovare ridicolo ed ingiusto l’arresto del giovane Nicolas, 23 anni, studente.


Una decisione più che scandalosa considerando anche la composizione etnica delle carceri francesi, in grado di trasformare qualsiasi soggiorno carcerario di un “francese di nascita”, etichettato inoltre come “fascista”, in una doppia punizione infernale. Tutto ciò non è altro che un ritorno alle «lettres de cachets » (1), tanto fischiate dai piccoli maestri di sinistra quando si trattava di denunciare il carattere autoritario della monarchia.


Questo chiaro tentativo di intimidazione politica contro i manifestanti (e spesso parliamo di madri, giovani ragazze, famiglie intere, anziani, suore, preti ecc.) che hanno al loro attivo solamente reati minori o una fedina penale immacolata (non parliamo di distruzione della proprietà privata, aggressioni, furti o danni. ..) è reso possibile dal fatto che la magistratura francese è colonizzata da militanti di estrema sinistra in seno al sindacato dei magistrati che rappresenta oltre il 30% dei giudici e dispone di “feudi” a Parigi, Bordeaux , Amiens …


Un sindacato che è salito recentemente agli “onori” della cronaca per la rivelazione della presenza nei locali dello stesso di un “angolo degli imbecilli” dove venivano appese le foto di persone o militanti di destra e perfino di alcune vittime o dei genitori delle vittime che hanno avuto la cattiva idea di non condividere l’inclinazione ideologica dei piccoli tribunali. Si può facilmente immaginare, a questo punto, la parzialità dei giudici, che sono, di fatto, militanti politici al servizio della loro causa.


Il messaggio è molto chiaro in tutti i casi. Come ai bei tempi del Terrore, che è il fondamento ontologico di questa piccola repubblica debole con i forti e forte con i deboli: nessuna libertà per i nemici della libertà e la volontà del Potere sarà quella di imporsi sempre al Diritto quando si tratta di punire gli impudenti che osano sfidarlo.


(1) Nella storia della Francia, le lettres de cachet erano lettere firmate dal re di Francia, controfirmate da uno dei suoi ministri e chiuse con il sigillo reale, o cachet. Le lettere contenevano ordini diretti del Re, spesso per forzare azioni arbitrarie e giudizi a cui non si poteva fare appello.

venerdì 21 giugno 2013

Hassan Rohani ha vinto le elezioni in Iran...




di Pietrangelo Buttafuoco 

Hassan Rohani ha vinto le elezioni in Iran. Gli sconfitti hanno riconosciuto l’esito del voto e si sono complimentati con lui. Nessuno ha abbaiato alla luna degli imbrogli. 

“Eppure”, scrive la mia amica Amani Razie, da Teheran, “le elezioni sono state gestite dal governo di Ahmadinejad. Io mi chiedo come mai oggi nessuno tra i candidati sconfitti e coloro che li hanno votati non solo non dubita né protesta per l’esito sorprendente delle presidenziali 2013, ma si congratula persino con il nuovo presidente?”.

Azzardo una risposta. L’Iran, a differenza dell’Italia, non è affetto da badoglismo. Certo, Dio ce ne scampi da certi piritolli che ci sono e fanno felice Shaitan (ce ne sono, altroché), ma ho scoperto un dettaglio della storia iraniana, la cui realtà statuale è antica di cinquecento anni, che mi ha colpito non poco. 

All’indomani della Rivoluzione moltissimi iraniani, fedeli allo Scià, cercarono riparo all’estero. Ma quando nel settembre del 1980 l’Iraq aggredì la Persia, la maggior parte di loro, quasi tutti rifugiati in Usa, chiese e ottenne di rientrare in patria. 

Per combattere. E non certo per badogliare.

giovedì 20 giugno 2013

Quegli strani “ostacoli” che rallentano il film “Il segreto” sulla strage partigiana di Codevigo…

di Priscilla del Ninno (Secolo d'Italia)


Questo film non s’ha da fare. È stato questo l’anatema scagliato contro Il segreto, del regista padovano Antonello Belluco, professionista che ha all’attivo un curriculum di tutto rispetto, che va dall’impegno registico per Radio 2 e Rai 3, alla realizzazione del film Antonio guerriero di Dio, e poi di spot e filmati per marchi più che celebri, fino alla produzione di audiovisivi, documentari e inchieste. 


Il motivo del sabotaggio? Semplicemente la scelta della storia da raccontare, o meglio, della verità storica su cui puntare i riflettori: l’eccidio perpetrato nel ’45 da alcune formazioni partigiane a danno di militari e civili fascisti (o presunti tali). Una mattanza di cui ancora oggi sfuggono i contorni effettivi. Una strage tra le più cruente della storia bellica nazionale, compiuta in un’unica località a guerra già finita, a guerra finita con vincitori e vinti già proclamati, quando le armi e le ostilità intestine avrebbero dovute essere già deposte, in un arco temporale che va dal 29 aprile alla metà di maggio, (forse anche dopo): nessuno può stabilire con precisione la cornice di sangue che delimita l’esecuzione sommaria di un numero compreso tra 114 e 136 vittime, tra militi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), delle Brigate Nere (BN), e semplici cittadini. 


Così come nessuno ha mai stabilito la contabilità esatta della mattanza: c’è chi parla di 136 vittime, chi di 168, chi di 365, chi addirittura, in base a un documento dell’arcidiocesi di Ravenna-Cervia, ipotizza la sconcertante cifra di 900 morti. Un numero imprecisato di corpi straziati, non tutti recuperati dalle fosse comuni, che accredita i contorni numerici della strage solo sulla base di quelli identificati, (ne furono riconosciuti con certezza 114), e che ancora oggi indigna per l’efferatezza delle esecuzioni: le vittime furono trucidate per vendetta, seviziate, umiliate e poi trucidate. Di molti di loro ha scritto Giampaolo Pansa ne Il sangue dei vinti. Di moltissimi altri si continua a non sapere nulla perché quella pagina feroce delle stragi partigiane nell’Italia liberata rappresenta ancora oggi un tabù difficile da affrontare e metabolizzare. Se ne è reso conto Renzo Martinelli ai tempi delle riprese, e della distribuzione, di Porzùs, di cui addirittura si arrivò a chiedere il ritiro dalle sale. 
 

Se ne è reso conto Belluco, dal 2011 alle prese con la lavorazione travagliata de Il segreto, di cui ultimerà le riprese a luglio. Che spera di finire di montare entro dicembre. Che si augura di riuscire a distribuire. Una lavorazione funestata da mille pressioni e da disponibilità ritirate, condizionata già dopo i primi ciak da una concatenazione di eventi negativi, difficilmente riconducibili al caso: la rinuncia del produttore, il dietrofront degli sponsor, i contributi ministeriali e regionali che sfumano, le promesse disattese da collezionisti e addetti ai lavori che avevano garantito di mettere a disposizione materiale bellico e costumi d’epoca, le diffide legali piovute sulla sceneggiatura. 
 

Unica luce in fondo a un tunnel nero, la partecipazione al film di Romina Power, tra i protagonisti del plot. Progetto tormentato su cui l’attrice e cantante ha scelto di scommettere a dispetto di tutto e tutti, per tornare davanti alla macchina da presa dopo un lunghissimo periodo di assenza dal set.

mercoledì 19 giugno 2013

Germania, 60 anni fa quella rivolta dimenticata. Ma fu la prima vera “Primavera”...

di Priscilla del Ninno (Secolo d'Italia)
Sessant’anni fa la Primavera tedesca: la prima autentica primavera europea. La prima volta in cui l’Occidente vide cittadini, giovani operai tedeschi, non armati di ideologia, affrontare a sassate i carri armati. Un’immagine che molti anni dopo, nel 1989, sarebbe stata replicata da quegli scatti in piazza Tienanmen, entrati di diritto nell’immaginario collettivo: le istantanee di quello che sarebbe passato alla storia come il “Rivoltoso sconosciuto”, che a mani nude si oppone al passaggio di un plotone di cingolati, divenendo da quell’istante il simbolo universale della lotta alla dittatura. 
Una protesta che in quel caso animò un’altra insurrezione popolare: quella archiviata dalla storia come la Primavera democratica cinese, culminata nella protesta della celebre piazza di Pechino, datata – guarda caso – 5 giugno. Anche allora, mentre il mondo si inchinava al coraggio eroico di quell’identità anonima, eppure conosciutissima, in pochi sapevano che quello a cui si stava assistendo in diretta tv era un film già visto quasi quarant’anni prima: a Berlino, Potsdam, Dresda, Lipsia, Halle, Magdeburgo, Goerlitz; in tutti i centri industriali e nelle grandi città di quella Germania dell’est che, tra il giugno e il luglio del 1953, vide trasformare quello che inizialmente era uno sciopero di operai edili che protestavano contro l’aumento delle quote di lavoro, e il rischio di un taglio di stipendio, in una rivolta contro il governo della Ddr e quindi di Mosca, scatenando a lanci di sassi la prima ribellione contro il regime comunista dell’ex Repubblica democratica tedesca. 
Una contestazione avvenuta tre anni prima della più nota rivolta d’Ungheria, e ben 15 anni prima della ancor più celebre Primavera di Praga: tutti eventi, come è notorio, ciclicamente sublimati in omaggi e commemorazioni, su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro, e a cui sono state dedicate molteplici rivisitazioni cinematografiche, oltreché ricorrenze puntualmente nel calendario delle celebrazioni istituzionali. Al contrario di quanto accade da decenni a questa parte per i moti operai tedeschi dell’ex Ddr, a cui la memoria storica ha messo colpevolmente la sordina. Anche questo sessantesimo anniversario, allora, è passato quasi inosservato, snobbato dalla stampa internazionale, malgrado la cancelliera tedesca Angela Merkel – cresciuta nell’ex Germania orientale – abbia reso omaggio alle vittime di quella rivolta operaia, (fonti ufficiali parlano di più di 50 morti, altre di 125, oltre che di 15000 arresti), schiacciata con la forza dai soliti carri armati sovietici il 17 giugno del 1953. «Una data indimenticabile – ha detto il capo del governo nel corso di una cerimonia a Berlino – e una tappa significativa della storia tedesca». 
Eppure, nonostante le dichiarazioni ufficiali e l’inaugurazione di ieri nella capitale tedesca di una “Piazza della rivolta popolare del 1953”, in uno dei punti caldi di quella storica ribellione, il presidente Joachim Gauck, in un discorso al Bundestag ha rivolto un appello affinché gli eventi e i protagonisti di quei giorni del ’53 trovino un «posto» nella memoria dei tedeschi. Un «posto nella memoria collettiva» della Germania riunificata dedicato alle centinaia di cittadini dell’est insorti, vittime della dittatura comunista, prima e dopo i fatti di quel 17 giugno.

martedì 18 giugno 2013

Il G8 di Lough Erne. Il girotondo più grande del mondo...


di Francesco Marotta (destra.it)
 
Barack Obama si trova a Lough Erne in Irlanda del Nord. L’accordo tra USA e UE, unisce disordinatamente la tavola rotonda dei potenti. Di che accordo si tratta? Libero scambio. Ci fa capire come non sia sufficiente leggere approssimativamente i lavori del G8 in Irlanda, come una scampagnata leggera dei grandi della terra. E’ l’occasione per il primo appuntamento tra Letta e Obama e, quella dichiarazione di intenti, miscelata ad un pretesto burocratico, che unisce l’Europa debilitata dal ballo del Can-can globale a quel espediente primordiale dell’interesse. E bene sì, sul lungo periodo il rapporto dei nipoti di Trotsky (Letta governa) con l’orientamento cosmopolita e con l’istruzione “neo-egemonista” statunitense, è lampante. L’espansionismo colonialista necessita una volta per tutte la testa del vecchio continente? Obliquamente alle istituzioni politiche e giuridiche internazionali si possono ottenere risultati. Il libero scambio, non è altro che una forma di influsso planetario di cui la politica statunitense e, l’economia preponderante, una volta quella occidentale, si alimentano supportando la globalizzazione.
 

Da leggersi come la deregolamentazione dell’economia europea e dei suoi stati membri, in scala maggiore, dalla limpidezza nitida anche ai pochi di vista corta che si assillano giurando il contrario: l’ingresso agli investimenti americani, l’impatto già visto con lo smantellamento delle “nazionalizzate” agli investimenti in suolo europeo, italiano, affidati alla “the Holy trinity of American Barbecue”. Carne da macello per rimpinguare il riassetto a stelle e strisce dopo aver donato all’Europa l’affossamento del sistema, dell’unità dei suoi stati e delle sue genti, grazie alle sue banche d’affari. Letta ha similitudini vicine al presidente di Cipro che andò in televisione a spiegare ai suoi connazionali, come furono espropriati della sovranità nazionale, grazie, al “nuovo” unilateralismo? Macché. In concomitanza con il presidente della commissione UE, Jose Manuel Barroso, ha dato il via alle formalità e alla strategia compiuta dello standard globale.
 

Stupirsi ancora? Ci ha pensato il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy: “dobbiamo mobilitare tutti i mezzi possibili per combattere la disoccupazione anche perché l’anno prossimo avremo una crescita che però non sarà abbastanza per contrastare l’emergenza lavoro”. L’ennesima riprova degli equilibri e delle emanazioni dirette e quell’obbligatorietà della crescita intramontabile, dove, però, di rigore si muore e l’austerità pressante, sulle retribuzioni e sul potere d’acquisto, rendono minore le entrate fiscali. Favorendo l’annullamento industriale sulle località, le regioni, per favorirne alacremente le delocalizzazioni su scala nazionale? Sediamoci un attimo. Il girotondo più grande del mondo, il budget solidamente strutturato e, la dottrina della crescita, esulano dal diritto degli stati e di un continente? Nell’assenza di un criterio politico e comunitario efficace, quando non c’e’ da legittimare la politica altrui valida per tutti ma, quella delle consuetudini e delle culture traboccanti di potenza, d’ingegno che dovrebbero essere in grado di attraversare quel limite che è la mondializzazione.


L’economia e il libero mercato non aprono solo le porte chiuse del G8, sconfinando nel terreno fertile della crisi siriana. Letta incontrerà Vladimir Putin: partendo dalla netta contrapposizione tra il Cremlino e il rappresentante di Palazzo Chigi sugli approvvigionamenti dell’arsenale dei ribelli siriani, rimpinguato dai britannici dei “popoli liberi”, allineati neppure a dirlo, con le impellenze americane. Un duro banco di prova per il Presidente del Consiglio dei Ministri, forte dell’intrepida Emma Bonino; un incontro da trionfatori con il risveglio “dell’Orso russo”, reinvestendo sull’antico adagio: il luogo dove prolifica il consumo, le mancate relazioni, le discrepanze sociali e la malevolenza, è estendibile anche in Siria ? La città di Hamoukar, l’antica città siriana a 10 chilometri al confine con l’Iraq, vide 3500 anni la battaglia e l’assedio più antichi della Storia. Attualmente di diversa natura sono le prospettive italiane ed europee? Cedere il passo definitivamente è come cancellare la personificazione impressa nella notte dei tempi.

lunedì 17 giugno 2013

Il martirio di Giralucci e Mazzola...


di Gabriele Adinolfi
Il 17 giugno 1974 nella sede del Msi di Padova aveva luogo la duplice esecuzione dei militanti Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Un'esecuzione a freddo ad opera di un commando delle Brigate Rosse commesso apparentemente senza ragione.
Se leggiamo altrimenti quel duplice omicidio scopriamo che fu il frutto di un golpe interno alle BR da parte di chi intendeva spingerle sulla via del sangue e della tensione in contrasto con i suoi fondatori.
A maggio i golpisti interni avevano votato per l'eliminazione del giudice Mario Sossi, ma i leader storici, Curcio e Franceschini, avevano vinto il braccio di ferro e lo avevano rilasciato il 23 dopo poco più di un mese di prigionia. Cinque giorni dopo, il 28, l'ala golpista interna delle BR aveva allora proceduto all'innalzamento della tensione mediante la strage di piazza della Loggia a Brescia.
Il ministro dell'interno di allora, il partigiano Taviani, capo operativo della Gladio, aveva però immediatamente impedito alla Questura di proseguire le indagini nella giusta direzione; una serie di depistaggi contro i fascisti, opera dei carabinieri, avrebbe subito disinnescato politicamente l'effetto voluto dagli esecutori della strage di Brescia.
 
Uccidere qualche fascista – cosa ben più confessabile di una strage in un comizio sindacale - avrebbe però conseguito il risultato del “passaggio del Rubicone” per la lotta armata rossa; nessuno poteva infatti biasimare l'assassinio di un paio di fascisti che non avevano alcun diritto di vivere secondo la sindrome dell'ideologia dell'odio proprio agli individui inferiori.
 
Sicché, silenziata Brescia, Padova avrebbe inchiodato i vertici costretti ad accettare il fatto compiuto e a familiarizzarsi con azioni meno romantiche e più cruente. Così, senza che potessero immaginarne la ragione, Giralucci e Mazzola vennero letteralmente abbattuti per consentire una svolta nelle BR contro i suoi vertici.
 
Vertici che di lì a poco (l'8 settembre a Pinerolo) sarebbero stati catturati e neutralizzati dai carabinieri del nucleo speciale di Dalla Chiesa, costituitosi proprio durante il sequestro Sossi. Mario Moretti, il luogotenente dei registi del golpe interno, sarebbe stato intanto avvertito telefonicamente da un carabiniere e non si sarebbe recato all'appuntamento con gli altri dirigenti delle BR.
 
Così si ritrovò tutto in mano e lo gestì come meglio garbava ai suoi superiori e a quegli alleati strani cui non aveva detto di no (il Mossad e i suoi amici tra carabinieri e in massoneria).
 
Si moriva anche così e per queste ragioni. C'era gente allora così depravata e amorale che poteva commettere azioni di questo tipo e di questa portata. C'è di nuovo e oggi ha ripreso pienamente il potere. Anche per questo non dobbiamo dimenticare nulla e nessuno.
 
Non solo il cuore in quel duplice Presente!

domenica 16 giugno 2013

Francesco Cecchin ricordato a 34 anni dalla morte a piazza Vescovio a Roma. Ma giustizia non è fatta…

di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)


«…e Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…» cantava Francesco Mancinelli nella sua canzone «Generazione 1978», dedicata ai ragazzi uccisi negli anni di piombo, vittime del comandamento “uccidere un fascista non è reato”, ai tempi non solo predicato dalla sinistra ufficiale, ma purtroppo praticato dai gruppi armati dell’ultrasinistra come Potere Operaio,autore del rogo di Primavalle. A Francesco Cecchin, giovane militante romano del Fronte della Gioventù assassinato nel 1979 da persone rimaste sempre ignote, è dedicata anche un’altra bellissima canzone degli Imperium, “Sera di giugno”. I fatti, avvenuti 34 anni fa, la notte tra il 28 e il 29 maggio 1979, sono stati raccontati molte volte. Francesco era un ragazzo che aveva non ancora 18 anni e che militava nel Fronte della Gioventù di via Migiurtinia, al quartiere cosiddetto Africano, al tempo controllato quasi militarmente dal Pci e dai gruppi fiancheggiatori. Via Migiurtinia a sua volta era un circolo emanazione della sezione del Msi di viale Somalia 5, la Trieste-Salario, il cui animatore e segretario è stato per molti anni Natale Gianvenuti, oggi scomparso. Il circolo di via Migiurtinia era mal tollerato dagli intolleranti della sinistra, che sin dal giorno della sua inaugurazione provocarono scontri per impedire la sua apertura. Sì perché on quegli anni gli anticomunisti non avevano diritto a fare politica e in realtà nemmeno ad esistere. “Uccidere un fascista non è reato”, certo, ma anche “i covi fascisti si chiudono col fuoco”, e così accadde proprio per via Migiurtinia, che dopo qualche anno fu costretta alla chiusura, malgrado l’”eroismo” dei suoi militanti. E proprio questa circostanza ricordò a Francesco Cecchin un dirigente del Pci della zona, Sante Moretti, che, come lui stesso ricordò tempo dopo, disse che via Migiurtinia l’avevano chiusa e avrebbero fatto chiudere anche la Trieste Salario. Ma quella non ci sono riusciti.


Tornando a quel 1979, Francesco Cecchin aveva una piena sintonia anche con l’emergente gruppo di Terza Posizione, molto attiva nel quartiere, ma aveva confidato a Marcello De Angelis, dirigente della formazione, che non gli sembrava corretto abbandonare il Fronte per passare a Terza Posizione, pur rimanendo in ottimi rapporti. Tanto è vero che poche ore dopo il suo omicidio, effettuato, come ricorda la sorella Maria Carla, che era con lui quando fu rincorso e ucciso, da uomini adulti e non da ragazzi come lui, i militanti della Trieste Salario si rivolsero proprio a Marcello De Angelis per realizzare un manifesto, poiché sapeva disegnare e scriveva canzoni. Così, ricorda De Angelis, «a casa mia, in quattro (c’erano degli amici di Francesco della Trieste Salario), lavorammo sul manifesto che poi è diventato famoso e che è quello che termina con la frase “Lui vive, lui combatte”. C’è anche un altro particolare che vale la pena raccontare, su questo manifesto. Inizialmente sarebbe dovuto essere stampato in serigrafia alla sezione del Msi di viale Somalia, ma poi, per intervento di Gianfranco Fini, allora segretario nazionale del Fronte della Gioventù, si mise a disposizione la rotativa del Secolo d’Italia che “sfornò” quei manifesti che tutti conosciamo a migliaia e migliaia, e che ancora oggi vengono affissi nelle strade di Roma. Ricorda De Angelis: «E quella fu la prima volta che vidi una mia creazione uscire in serie da una rotativa, fu una grande emozione…». Sappiamo tutti che le indagini, come dice la stessa sentenza della magistratura, furono superficiali e peggio, e che per questo non si è riusciti a risalire agli assassini. Ma il colpevole è il clima di quei tempi, a Roma, a Milano, dappertutto in Italia, che incitava all’odio di parte e che non permetteva a chi non fosse di sinistra di esprimersi né tantomeno di avere agibilità politica. Così, lo spazio per la libertà di parola andava conquistato: ed era quello che al Trieste Salario facevano i giovani militanti del Fronte, come ricordano oggi due attivisti di allora, Fabrizio Bruschelli e Flavio Amadio, tra i primi a giungere sul luogo dell’omicidio. «Alle sinistre dava molto fastidio quello che facevamo nel quartiere, il nostro impegno sociale, per il verde – dicono – perciò cercavano di farci tacere in tutti i modi. Pestaggi, aggressioni, intimidazioni di ogni tipo, attentati alle nostre sedi». Proprio qualche giorno prima del suo assassinio Francesco Cecchin era stati circondato da una ventina di attivisti comunisti con cui aveva avuto una discussione per una storia di affissioni di manifesti. I giovani del Fronte li attaccavano, e i comunisti li coprivano quando non li strappavano.


Altri tempi? Non tanto, se in occasione dell’intitolazione dei giardini di piazza Vescovio a Francesco Cecchin, voluta da Gianni Alemanno, ai tempi anche lui dirigente del FdG, intitolazione avvenuta nel febbraio dello scorso anno, il Pd e l’Anpi sono insorti in modo vergognoso e incomprensibile contro un’iniziativa civile e pacificatrice. Il martire va ricordato, per loro, solo se di sinistra, altrimenti deve vigere la marxiana “damnatio memoriae”. I giardini sono stati intitolati e oggi 15 giugno centinaia di amici vecchi e nuovi di Francesco Cecchin, riuniti nel Comitato di piazza Vescovio, hanno presentato agli abitanti del quartiere la suggestiva stele di marmo che ricorda il giovane diciassettenne assassinato tanti anni fa da chi non la pensava come lui. Il Comitato ha anche intenzione di apporre vicino il monumento una piccola targa di rame con una breve spiegazione e ricordo. L’unica cosa certa è che si tratta dell’ennesimo omicidio politico senza colpevoli: la corte infatti sentenziò nelle motivazioni che Francesco non si gettò nel vuoto per fuggire, poiché tra l’altro conosceva benissimo quel cortile, ma fu picchiato e poi buttato esanime di sotto, e quella caduta di oltre quattro metri ne decretò la fine dopo 17 giorni di agonia. Una lapide lo ricorda in via Montebuono, proprio davanti al cortile dove fu buttato in quella sera di Primavera dai suoi carnefici. C’è scritto così: «Mai più ruberete la sua voce e fermerete i suoi passi. Per lui ora parla il vento. Come mare è il suo cammino. Francesco Maria Cecchin, caduto per la rivoluzione. Il popolo lo onora».

venerdì 14 giugno 2013

Il sapore dolcissimo delle fragole...


di Mario M. Merlino

Un uomo fuggiva nella jungla inseguito da una tigre. Trovandosi di fronte un dirupo egli si appese ad una liana e iniziò a scendere mentre la tigre gli soffiava sull’orlo del baratro. Si accorse, però, che una seconda tigre lo attendeva, altrettanto famelica, al fondo. E un topolino si mise a rodere la liana. Si guardò attorno. Un cespuglio di fragole selvatiche attrasse la sua attenzione. Allungò la mano, ne colse una. Il suo sapore era dolcissimo…


Non ricordo se ha origini in India o è una parabola dello Zen giapponese. Vi è forse un’analogia con il cavalcare la tigre, da cui Julius Evola trasse il titolo di uno dei suoi libri, fra i più inquietanti e forse distorti. Se non ti è dato sottrarti alle fauci e artigli della tigre, prova a cavalcarla. Essa non potrà lacerarti la carne e, forse, stanca del tuo peso, abbandonerà al sonno ogni intento feroce e tu potrai sfuggirgli… Lasciare la presa, dunque, che ti avvince alla prigione dei desideri e, di conseguenza, al dolore. 
In Occidente furono le scuole post-aristoteliche che invitarono a coltivare l’assenza delle passioni. Del resto si narra come Pirrone, fondatore della scuola scettica, avesse seguito Alessandro attraverso l’altopiano persiano e giungesse fino in India. Qui egli aveva incontrato degli strani sapienti, che dai greci vennero chiamati ‘gimno-sofisti’ (cultori del corpo, si potrebbe tradurre). Uno di costoro, a dimostrazione di quanto inconsistente ed effimera fosse l’esistenza, si diede fuoco davanti a lui.(La filosofia storpiò prontamente lo scetticismo perché,  reputandosi l’unica depositaria del sapere, non poteva ammettere che, proprio all’interno di se medesima, vi fosse chi affermasse a priori l’irraggiungibile pretesa di tutto conoscere spiegare determinare… e che, semmai, il percorso poteva essere simile a quei sentieri che, disperdendosi nel bosco, non sempre ci conducono alla radura e alla luminosità oltre l’intrico d’alberi e foglie). Schopenhauer e Nietzsche ripresero questi temi, separando la loro strada su quale dovesse essere il comportamento dell’uomo di fronte al dolore – sottrarsi per il primo (il Nirvana), correre incontro ad esso per il secondo (Amor fati). E definizione e distinguo qui, ne convengo, alquanto minimali e valevoli per i cultori del Bignami.
Nietzsche parla espressamente di ‘prendere la distanza’ (una poesia della raccolta dal titolo Inattuale, dicembre 1979, si conclude con il verso e con la consapevolezza di aver conquistato l‘indifferenza per il superfluo’, un grazie va all’esperienza del carcere dimostratasi il veleno che si volge in farmaco). Eppure mi sembra che vi sia nell’invito del filosofo anche un aspetto legato alla ricerca della corretta conoscenza. D’altronde gli stoici fondavano l’etica sulla capacità di saper cogliere razionalmente le distinzioni di valore.
Prendere la distanza equivale a collocarsi a distanza, contrariamente a chiedere la misura
che si necessita per la vicinanza. Altrimenti detto, se io sono prossimo a qualcuno o qualcosa, ne colgo appieno ogni particolare anche il più minuto ogni sfumatura ogni mutevolezza. E, dunque, mi sento appagato e, illuso, certo della conoscenza acquisita. Un volto, il colore degli occhi, la forma del naso e della bocca, ad esempio. Se, al contrario, mi colloco a distanza la fisionomia si sfuma, il tratto si rende indefinito, incerte si fanno le proporzioni… Una montagna appare una sorta di grigio triangolo piccolo e vago, quando però vi sono sotto alzo il capo e mi sento oppresso dalla sua ombra imponente. Ciò che è vicino è superiore a ciò che è lontano, nell’ambito della mente come per le pulsioni del cuore? Errore!
Il 29 giugno sono stato invitato, più esattamente arruolato manu militari, ad un convegno sulle prospettive prossime della situazione politica. Dovrei farne a meno (oltre tutto nello stesso giorno sono al comune di Affile per riproporre il recente convegno sul Maresciallo Rodolfo Graziani), io, che non leggo i quotidiani da anni, vedo poco e poco volentieri i telegiornali ascolto la radio in piena notte con notizie proposte in tre-quattro minuti e mi annoio. Sì, francamente, mi annoio a sentire le dissertazioni intorno ai massimi sistemi della politica nazionale e internazionale (che, ormai, sono fra loro intimamente intrecciate), con i grandi e piccoli vecchi, le ombre di poteri forti fortissimi e tentacolari, globalizzazione e mondialismo, di cui tutti sanno parlano e straparlano con le misteriose sigle circoli entità (se sono i dominatori occulti del mondo, quanto si rendono sfacciatamente visibili alla nostra vigile coscienza… ma, già, dimenticavo che vi fu già un bambino a puntare il dito verso il re nudo!).
Nella solitudine più estrema, nella povertà evidente, nella follia prossima a farne muto testimone di sé, Nietzsche si propose quale ideatore e annunciò l’avvento della ‘grande politica’…a distanza vengono meno i particolari, va da sé, ma si possiede la visione ampia dello spazio e il suo collocarsi nel tempo, mentre essere prossimi consente sì di cogliere l’attimo, il quale è sempre ‘fuggente’ (qui ed ora… volgo lo sguardo e quel qui non è più qui e già ora è il passato!), una parte ma mai il tutto…
Ne riparleremo, già, ne parlerò… intanto vi lascio, dopo avervi stancato con funambolismi pseudo-filosofici, con Ernst Juenger che aveva il dono del linguaggio adamantino: ‘Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro… qui ognuno conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia’… e avvertirà in sè il sapore dolcissimo della fragola selvatica.

mercoledì 12 giugno 2013

La fine della sovranità...


di Alain de Benoist (Diorama Letterario)

La fine del mondo c'è stata, eccome! Non è avvenuta in un giorni preciso, ma si è spalmata su più decenni. Il mondo che è scomparso era un mondo in cui la maggior parte dei bambini sapevano leggere e scrivere. In cui si ammiravano gli eroi invece delle vittime. In cui gli apparati politici non si erano ancora trasformati in macchine per stritolare le anime. In cui si avevano a disposizione più modelli che diritti. Era un mondo nel quale si poteva capire che cosa intendeva dire Pascal quando sosteneva che il divertimento ci distrae dall'essere veramente uomini. Era un mondo nel quale le frontiere garantivano a coloro che vivevano al loro un interno un modo di essere e di vivere che era di loro specifica pertinenza. Era un mondo che aveva anche i suoi difetti e che talvolta è stato addirittura orribile, ma dove la vita quotidiana del maggior numero di persone era quantomeno garantita da dispositivi di senso capaci di dispensare punti di riferimento. Attraverso i ricordi, quel mondo rimane familiare a molti. Taluni lo rimpiangono. Ma non tornerà.
Il nuovo mondo è liquido. Al suo interno, lo spazio e il tempo sono aboliti. Liberata dalle sue tradizionali mediazioni, la società è diventata sempre più fluida e sempre più segmentata, il che ne facilita la mercantilizzazione. Vi si vive secondo il modo dello zapping. Con la scomparsa di fatto dei grandi progetti collettivi, in altre epoche portatori di visioni del mondo differenti, la religione dell'io — un io fondato sul desiderio narcisistico di libertà incondizionata, un io produttore di sé a partire dal niente — è sfociata in una "detradizionalizzazione" generalizzata, che va di pari passo con la liquidazione dei punti di riferimento e dei punti fissi, rendendo l'individuo più malleabile e più condizionabile, più precario e più nomade. Da un mezzo secolo, l'«osmosi finanziaria della destra finanziaria e della sinistra multiculturale», come ha scritto Mathieu Bock-Coté, si è sforzata, con il pretesto della "modernizzazione" emancipatrice, di far confluire liberalismo economico e liberalismo societario, sistema di mercato e cultura marginale, grazie soprattutto alla strumentalizzazione mercantile dell'ideologia del desiderio, capitalizzando così sulla decomposizione delle forme sociali tradizionali. L'obiettivo generale è eliminare le comunità di senso che non funzionano secondo la logica del mercato. Parallelamente, sono all'opera vere e proprie trasformazioni antropologiche. Toccano il rapporto con se stessi, il rapporto con l'altro, il rapporto con il corpo, il rapporto con la tecniche. 
E domani giungeranno sino alla fusione programmatica fra l'elettronico e il vivente. Quando il desiderio di profitto si impone come unica motivazione a detrimento di tutte le altre, il suo effetto performativo è di generalizzare lo spirito mercantile, che decompone la popolazione in semplici clientele. In questo contesto, il "politicamente corretto" non è una semplice moda un po' ridicola, ma un mezzo forte per trasformare il pensiero, per restringere ulteriormente uno spazio comune generatore di obbligazioni reciproche, per rendere impossibile la riabilitazione di un universo di senso oggi scomparso.
Stiamo infine assistendo all'istituirsi della governane, una sorta di cesarismo finanziario che consiste nel governare i popoli tenendoli in disparte. Lo Stato terapeutico e gestionale, dispensatore di ingegneria sociale e Grande Sorvegliante, si impegna, dal canto suo, a sopprimere la barriera esistente tra l'ordine e il caos. Esso basa il proprio potere sulla costituzione assolutamente volontaria di una situazione subcaotica, sullo sfondo di una fuga in avanti e di una illimitatezza generalizzate, creando in tal modo una situazione di guerra civile fredda. Lo stesso concetto di classe sociale viene congedato da una sociologia vittimistica che al suo posto colloca la denuncia dell'"esclusione" e la "lotta contro le discriminazioni", e da una "scienza" economica che guarda al concetto di popolo come ad una categoria residuale, nel momento stesso in cui la lotta di classe è più che mai in auge.
Sotto l'effetto delle politiche di "austerità", l'Europa sta scivolando nella recessione, quando non nella depressione. La disoccupazione di massa continua ad estendersi, lo smantellamento dei servizi pubblici comporta la riduzione dei beni sociali e il potere d'acquisto crolla. 
Un quarto della popolazione europea (120 milioni di persone) è sotto la minaccia della povertà. In passato, si sono fatte rivoluzioni per meno di questo. Oggi, non accade niente di simile. Delocalizzazioni, licenziamenti e piani sociali provocano, certo, proteste — ma non assistiamo a nessuno sciopero di solidarietà, e meno che mai a scioperi generali: la lotta per il mantenimento del posto di lavoro non ha prospettive al di là di se stessa. Perché la crisi viene subita così passivamente? Perché i popoli sono sfiniti, sbalorditi, sgomenti? Perché hanno interiorizzato l'idea che non esistano alternative? I popoli vivono sotto l'orizzonte della fatalità. Attendono che questo accada. Ma non accadrà, perché il capitalismo si scontra oggettivamente con limiti storici assoluti.
Viviamo una crisi di un'ampiezza assolutamente inedita, che tocca il sistema capitalista ad un livello di accumulazione e di produttività ancora mai raggiunto. Le crisi del XIX secolo avevano potuto essere superate perché la Forma-Capitale non si era ancora impadronita di tutta la riproduzione sociale. 
Quella del 1929 lo è stata grazie al fordismo, alla regolazione keynesiana e alla guerra. La crisi attuale, che interviene sullo sfondo della terza rivoluzione industriale, è una crisi strutturale, contrassegnata dalla completa emancipazione della finanza di mercato rispetto all'economia reale e dall'indebitamento generalizzato. Uno dei suoi effetti diretti è consistito nell'affidare il potere politico ai rappresentanti di Goldman Sachs e di Lehman Brothers. Ma nessuno di loro risolverà il problema, perché non esiste un meccanismo che consenta di aver ragione della crisi. Le bolle finanziarie, il credito di Stato e la macchina che stampa banconote, vale a dire la creazione di capitale-denaro fittizio, non possono più risolvere il problema della desostanzializzazione generalizzata del Capitale. Sia che ci si diriga verso un'inflazione incontrollabile in assenza di qualsiasi reale valorizzazione — trattando l'attuale crisi di solvibilità come una crisi di liquidità — sia che si vada verso un generalizzato default nei pagamenti, tutto ciò non può che finire con un terremoto.
In un'epoca come la nostra, ci sono solo quattro tipi di uomini. Ci sono coloro che, del tutto consapevolmente, vogliono che ci si infili sempre più lontano nel caos e nella notte. Ci sono quelli che, volontariamente o no, sono sempre pronti a subire. Ci sono i diplodochi reazionari, che vivono la situazione attuale sul registro della deplorazione. Fra geremiadi e commemorazioni, credono di poter far tornare il vecchio ordine, ragion per cui non fanno altro che registrare sconfitte. Infine, ci sono coloro che vogliono un nuovo inizio. Quelli che vivono nella notte ma non sono della notte, poiché vogliono ritrovare la luce. Quelli che sanno che al di sopra del reale c'è il possibile. A loro piace citare George Orwell: «In un'epoca di universale disonestà, dire la verità è un atto rivoluzionario».

martedì 11 giugno 2013

Intervista a Marcello De Angelis...



INTERVISTA A MARCELLO DE ANGELIS (a cura di Ereticamente.net)


Marcello De Angelis, romano, classe 1960, è sicuramente una persona che ha molto da raccontarci.
Nipote del cantante operistico Nazzareno De Angelis e figlio di uno scenografo RAI, nel corso della sua vita è stato esponente di spicco dei movimenti extraparlamentari "Lotta Studentesca" e "Terza Posizione" e fondatore del gruppo musicale "270 bis", co-fondatore della rivista "La Spina nel fianco" con Maurice Bignami e collaboratore de "L'Italia settimanale" di Marcello Veneziani e direttore della rivista "Area" (1996-2004) e del quotidiano "Il Secolo d'Italia" (2011). E' stato senatore per Alleanza Nazionale (2006-2008) e deputato per il Popolo della Libertà (2008-2013).

Marcello De Angelis, innanzitutto la redazione di "EreticaMente" La ringrazia per avere concesso questa intervista. Ci può raccontare qualcosa delle Sue origini familiari, che sicuramente hanno contribuito non poco a orientare le attitudini e gli interessi che Lei ha manifestato nel corso della Sua vita? 
Probabilmente come tutti sono il prodotto delle influenze familiari. Sicuramente più dal punto di vista della formazione del carattere che delle opinioni politiche. I miei genitori pur avendo idee politiche non ci hanno né indottrinato né orientato. Ci hanno influenzato con i loro valori e il loro stile di vita. La cultura, le arti, il disegno, la musica, lo scrivere sono stati elementi costanti della nostra vita familiare sin da quando eravamo piccolissimi. I nostri genitori ci portavano alle mostre piuttosto che al cinema. Parlo al plurale perché ovviamente mi riferisco anche ai miei fratelli - e in particolare a Nanni - oltre che a me.

Lei, al pari di altre figure storiche dell'area politica "nazional-popolare" come Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi, è stato una delle figure più rappresentative del movimento extraparlamentare "Terza Posizione", pagando anche un prezzo altissimo a livello personale e familiare. Quando è rientrato dall'Inghilterra Lei poteva rappresentare un momento di unione per tante anime dell'area divise. Cosa Le ha impedito di essere 'l'asse che non vacilla' come avrebbe detto Pound?
Non credo agli "assi solitari". O almeno, io da solo non ho mai creduto di essere sufficiente. Mi pare evidente che l'operazione culturale che ho cercato di fare, parallelamente con una rivista come Area e con la mia attività musicale, è stato cercare di tenere insieme varie sensibilità e esperienze intorno a un dato comune e traghettare tutto quello che c'era stato prima in un percorso il più possibile condiviso per il dopo.

L' ombra di Nanni quanto ha inciso nel Suo percorso, personale e politico? e come avrebbe preso il Suo inserirsi nella destra parlamentare?
Più che ombra direi "luce"… Nanni è morto a 22 anni, chi lo sà che uomo sarebbe diventato a quaranta o a cinquanta? Forse il suo interesse per la politica sarebbe scemato o forse in Parlamento ci sarebbe andato lui al posto mio. Avventurarsi ad interpretare a posteriori quello che avrebbe fatto, detto o pensato una persona dopo la sua morte non è molto corretto ed è anche una mancanza di rispetto. Eppure non passa settimana che non mi capiti di incontrare qualche mitomane che mi dice che lui era il miglior amico di mio fratello… A volte perché credono che io sia molto più giovane e sperano che io abbia memorie confuse. Invece avevamo poco più di un anno di differenza e fino alla sua morte Nanni ed io siamo stati vicini come gemelli. Con tutte le naturali differenze voglio credere che avremmo comunque continuato a stare fianco a fianco in qualunque contesto.

Molti giovani sono cresciuti con le canzoni che Lei ha scritto e musicato per i "270 bis". C'è del rimpianto per queste migliaia di giovani che l’ascoltavano si emozionavano quando cantavano le Sue canzoni? era un momento unitario, raro nell'ambiente...
Ho nostalgia del palco, certo. Ti regala emozioni molto forti che, a dire il vero, avevo anche quando mi capitava di intervenire agli straordinari incontri che Area organizzava ogni anno a Orvieto. Ma non c'è solo il palco. Continuo a incontrare persone tutti i giorni che mi raccontano di quando venivano ai concerti e altre ancora che sono troppo giovani per esserci venute e non mi hanno mai incontrato e quindi non mi riconoscono. Parlano del gruppo e delle mie canzoni come se fosse qualcosa che appartiene a loro. Ed è così che deve essere.

Lei è una figura di spicco del giornalismo "di destra" da oltre venti anni. Come giudica in retrospettiva le esperienze di cui a vario titolo Lei è stato protagonista ("L'Italia Settimanale", "Area", "Il Secolo d'Italia") e quali prospettive intravede per il futuro, soprattutto alla luce del fatto che proprio l'ultima testata da Lei diretta è diventata un quotidiano "on line"?
Ogni esperienza è stata quella giusta nel tempo in cui l'ho fatta. Non è così per tutte le cose della vita? Ho cominciato a lavorare in tipografia che non avevo 18 anni. Era un altro secolo. Davvero, c'era ancora la composizione a piombo. Il mondo va avanti. Anche le persone. L'unica cosa che non dovrebbe cambiare sono i contenuti profondi. Quando ci sono le spade si combatte con le spade ma se continui con le spade quando tutti usano gli aeroplani non sei molto utile. Con internet è cambiato tutto il mondo. Può non piacere ma la realtà è quella cosa che resta uguale indipendentemente dai tuoi desideri. Quindi ti devi adattare tu.

E ancora: essere il direttore de il secolo, con una storia Sua e una storia il giornale, queste storie adesso come coabitano con i cambiamenti avvenuti nell'area di destra?
Le storie o si seppelliscono nel passato o si cerca di farle continuare nel presente e per il futuro. Non c'è nulla di fermo nella vita. Due persone diverse si incontrano, si trovano bene e fanno dei figli. Poi i figli continuano assomigliando un poco a tutti e due ma diventando anche qualcosa di completamente diverso. Non ci si bagna mai nella stessa acqua dello stesso fiume. L'importante è che il fiume non si prosciughi.

Mentre in tutta Europa (basti pensare al francese Front National o alla greca Alba d'Oro) i movimenti nazionalisti ed euroscettici di destra ottengono risultati ragguardevoli, in Italia le recenti elezioni politiche e amministrative (con i relativi alti e bassi del Movimento 5 Stelle) sembrano indicare che in Italia non c'è spazio per una prospettiva del genere. Fratelli d'Italia, La Destra, Casa Pound Italia, Forza Nuova, etc. stentano a imporsi all'attenzione degli elettori. Perchè?
Perché i tempi sono diversi e i luoghi sono diversi. Negli anni Novanta in Francia c'era chi sosteneva che l'esempio da seguire e che portava al successo era quello di Fini con Alleanza nazionale. Ora che quella fase è finita sono gli italiani a invidiare i risultati di Marine Le Pen. In Italia una volta che la destra non è rimasta più marginalizzata ha perso i connotati che quella marginalizzazione le garantiva. Ma soprattutto ha perso quello che la costringeva a una parvenza di unione. Il Front national di oggi è il risultato della capacità di sopravvivere a una esclusione che dura da 30 anni. Alba d'orata è un fenomeno estemporaneo di cui è impossibile prevedere la continuazione. Il consenso elettorale è sempre un dato effimero e dipende dalla pancia più che dalla testa. In Italia lo scontento è stato canalizzato contro la politica anziché contro l'Europa, o contro le banche. Un successo degli eurocrati e dei banchieri, indubbiamente.

Sempre più le politiche economiche imposte dall'Unione Europea (Fiscal Compact, Meccanismo Europeo di Stabilità) e l'imposizione stessa dell'Euro come moneta unica a un insieme di Stati che non costituiscono un'area valutaria ottimale, stanno distruggendo il tessuto economico e la convivenza sociale in Europa. Molti economisti e politologi propugnano la necessità di un "ritorno alla Lira", e più in generale alla sovranità economica e monetaria dello Stato Nazionale. Cosa ne pensa?
La sovranità economica e monetaria si potrebbe teoricamente avere anche con l'euro, che non è una moneta unica ma una convenzione monetaria. La differenza di valore che prima era data dalla differenza di valute ora è determinata dallo spread e altri tecnicismi contabili. La sovranità economica è stata ceduta a dei comitati sovranazionali non molto chiari e l'Europa non ha contraccambiato con garanzie che dovevano venire dal rafforzamento della banca centrale. Gli stati politicamente deboli sono stati truffati con una logica del "quel che è tuo è mio e quel che è mio resta mio" da parte della Germania. Uscire dall'euro non sarebbe né facile, né immediato. Lo vedo complicato.

Proviamo a guardare al futuro. De Angelis e le canzoni, De Angelis deputato, De Angelis direttore de Il Secolo. e domani? un altra immagine di De Angelis o un sottile filo conduttore...
Non possiedo la sfera di cristallo. Ho più di 50 anni, non faccio piani per il futuro e non credo che sia in mio potere determinarlo. Cantante, deputato, direttore (e varie altre cose) più che immagini sono vestiti. Le stagioni cambiano, i vestiti si consumano. L'importante è quello che c'è sotto. E quello non l'ho ancora scoperto chiaramente nemmeno io. Intanto faccio il padre di altri tre figli nuovi nuovi (ne ho un altro che si è già sposato). E' un impegno notevole, che mi condizionerà per i prossimi venti anni. Se sopravvivo.