L’attualità
fa pena, e mi riferisco in particolare a quella italiana, paludosa,
noiosa, deludente, avvilente. Mi scuseranno i lettori se oggi mi prendo
una pausa dal commentare i fatti di politica interna e parlo di un
oggetto scomparso dall’orizzonte del dibattito quotidiano: la filosofia.
Sia chiaro: da orecchiante, quale è il sottoscritto.
La
filosofia dovrebbe essere, assieme alla storia, la base culturale di un
buon cittadino che vuole impegnarsi in prima persona nell’attività più
alta: la politica.
In
questi tempi di passioni tristi e ignoranza crassa, il personale
politico non solo ha mediamente una cultura generale bassa, ma in genere
sa quattro acche in croce di due materie che a scuola vengono relegate
ad un ruolo secondario, inferiore all’inglese idioma della
globalizzazione opprimente. Questo perché le conoscenze umanistiche, e
in particolar modo le due materie di cui sopra, nonostante il bla bla
dei convegni sono shit, per le esigenze del dio Mercato. E in Italia
siamo ancora a livelli sopportabili, pensate un po’.
Ecco,
vorrei parlare proprio dell’ideologia dominante dell’Economia
(capitalismo assoluto, la chiama sulla scia di Preve l’ottimo Fusaro,
uno dei pochi nouveau philosophes critici del piattume imperante:
leggetevi il suo “Minima mercatalia”). Per contrastarla serve un
pensiero forte da contrapporle. Ma niente sofismi, teoremi e sistemi:
urge una filosofia d’azione, nel senso più ampio: filosofia politica e
di vita. Perché contro l’irrazionalità del nostro modo di vivere, molto
razionalista ma folle nel suo ridurre ogni cosa al costo di mercato,
l’unica via di salvezza può essere la saggezza, una sapiente costruzione
di concetti teorici e regole pratiche basate sul sentimento,
sull’istinto di comunità, sugli insegnamenti della natura.
Di
una rivoluzione come restaurazione necessitiamo come il pane. Un ordine
interiore e comunitario insieme, perché gli sdegnosi “autarchi” chiusi
nel proprio io non sono che il rovescio snob dell’individualismo gretto e
pecoraio. Rivoluzionario, perché distruttore dell’esistente fin nella
sua più intima logica, che è l’arida contabilità del denaro.
Restauratore, perché in latino “rivoluzione” significa ritorno, e l’uomo
post-moderno non deve fare altro, in fin dei conti, che riscoprire i
suoi bisogni più elementari e umani, resi irriconoscibili dall’edonismo
pompato da un’economia in perenne sovraccarico.
Il
nostro non è il tempo per costruire: è il tempo per distruggere. Ma per
poter fare tabula rasa dei falsi idoli, alle masse occorrono valori in
base ai quali usare il martello, e per crederci bisogna vedere una luce
in fondo al tunnel. La luce è una visione del mondo, fatta di poche
semplici idee che chiunque possa capire e fare proprie perché le sente
sue. Bando all’intellettualismo, dunque, per quanto lucido e veritiero.
Abbiamo sete di una terra promessa a cui aspirare. Non un altro sol
dell’avvenire o paradiso terrestre, non l’ennesimo “uomo nuovo” o impero
millenario. Quel che manca per far ri-circolare il sangue nelle vene è
un mito da interiorizzare, un orizzonte ideale che metta in moto la
volontà, che dia l’immagine plastica della liberazione.
Mito:
attenzione, non tanto, o non solo, in senso soreliano, cioè come méta
irrazionale, motore di azione politica anzitutto, nel senso originario.
Mito, di credenza mistica nella propria radice: «Il radicamento è forse
il bisogno più importante e più misconosciuto dell’animo umano»,
scriveva Simone Weil. La libertà sbracata in licenza nasconde in realtà
la manipolazione più totalitaria che sia mai esistita – l’illusoria
libertà di consumare l’esistenza come una merce. La direzione opposta è
il recupero dell’etica. Volendo tradurre questo concetto in ambito
sociale, il suo significato sta nel dotarsi del fine proprio
dell’uomo-animale politico: la virtù. Bisogna tornare ad Aristotele,
ricavandone l’insegnamento utile a sanare la malattia moderna
dell’individualismo. Questo insegnamento, come hanno osservato già da
alcuni decenni gli esponenti della corrente neo-aristotelica (non
casualmente sorta negli Stati Uniti), può essere definito con la formula
di comunitarismo.
Con
il fallace argomento che la mia libertà finisce dove comincia quella
altrui, restringono sempre di più la mia fino a schiacciarla. La Libertà
è semplicemente poter esprimere ciò che si è. Il suo limite non sta
nella libertà del prossimo, ma nei beni comuni, ovvero nel corpus di
regole, di soggetti e di oggetti appartenenti alla comunità. Questa
storia per cui posso fare tutto quel che mi pare purché non rechi danno
al mio dirimpettaio presuppone una società di individui separati,
isolati, auto-centrati, totalmente presi da sé stessi. È la concezione
del singolo come privato, privo di legami, atomo indipendente e
assoluto. Una monade leibniziana, o se si preferisce un idiota in senso
greco.
Puro
delirio. Gli esseri umani di ogni epoca e latitudine non sono mai
venuti al mondo senza un padre e una madre, senza una famiglia, senza
una società d’appartenenza, senza tradizioni, costumi, modi e visioni di
vita predeterminati. Cioè senza quei fatti, dati a priori, che
prescindono dal concepimento e dalla volontà. Ciascun uomo e ciascuna
donna s’inserisce fin dal suo primo vagito in una trama di ciò che è
venuto prima di lui o di lei, e non potrebbe essere diversamente. Il
liberalismo, ideologia giustificatrice del borghese capitalista, assume
invece come pre-giudizio un individuo che viene dal nulla e diviene
“qualcosa” (che so: un adoratore di Satana o un geometra) esclusivamente
per suo insindacabile arbitrio. Ora, questa, oltre ad essere una
stupidaggine infondata e materialmente infattibile, è una belluina
truffa filosofica, che come tutte le truffe danneggia il truffato, ossia
chi ci crede. La sostanza che rende umano un uomo è, al contrario, la
sua predisposizione alla socialità.
Solo
una bestia o un dio può vivere da solo. L’uomo è, per sua natura, un
animale politico. Chiaro che gli uomini, insomma, sono mediamente dei
pochi di buono, guicciardinianamente fissati sul proprio particulare. Ma
su questa parte individualistica, distruttiva, ferina, fa aggio di gran
lunga l’altra, l’animale sociale, che si accorda, coopera, cerca il
calore e la sicurezza di un insieme più grande, fa progetti e immagina
opere impossibili da realizzare senza il concorso altrui.
Attenti:
non è l’idealizzazione rousseauiana del buon selvaggio. Ambizione,
gloria, sete di ricchezza, fame di potere, ricerca del piacere sono
tutti potenti stimolanti del comunitarismo, a patto di essere limitati e
incanalati al servizio della collettività. Né Hobbes né Rousseau, ma il
vecchio, insuperato e buon Aristotele, che andrebbe recuperato su tutta
la linea per ciò che riguarda l’etica e la politica. Pensare che ogni
capacità abbia un fine che si tratta di scoprire e sviluppare al meglio,
a mio parere costituisce il più onesto e bel modo di battere la
disperazione del non-senso. Onesto, perché se pure, se fossimo
nichilisti, presupponessimo che ogni senso, ogni ideale, ogni virtù
morale è una pia illusione mistificatrice, individuare comunque una
finalità interna e immanente a ciascun essere, vuol dire essere sinceri e
avere i piedi per terra.
Ora,
se l’ottica giusta è, realisticamente, estrarre dalla politica il suo
senso intrinseco, questo non può che essere il vivere bene assieme, lo
stare bene in comunità: il Bene comune. Presupposto indispensabile per
metterlo in pratica è la libertà. L’uomo libero è colui che si
auto-governa, che è contemporaneamente sovrano e suddito, ossia
cittadino. La condizione di libero sfocia necessariamente nella ricerca
di obbiettivi ritenuti validi e positivi per tutta la cittadinanza,
perché altrimenti non avrebbe alcun senso, sarebbe una libertà vuota,
visto che si agisce sempre in un dato contesto sociale. Si potrebbe
dire: libero di far che, se non di realizzare il proprio valore secondo i
valori del gruppo cui si appartiene? Sulla scia del filosofo del Liceo,
il neo-comunitarista americano MacIntyre sintetizza alla perfezione
questo concetto: «il mio bene in quanto uomo coincide assolutamente con
il bene di quegli altri con cui sono legato in una comunità umana».
Ecco
la via per superare la falsa dicotomia fra interesse privato e
collettivo: la loro è una coincidenza di principio. Più mi impegno per
fare il bene del mio prossimo, più faccio il mio. Più sono libero di
essere me stesso, nel senso di coltivare il mio valore, maggiore è il
servizio che rendo alla comunità. È un ribaltamento totale rispetto alla
mentalità utilitaristica del liberale: per costui il pericolo da
sventare è danneggiare l’altro, dando per scontata un’innata asocialità
smentita dai fatti, mentre per il comunitarista la bussola è la libertà
che diventa concreta e trova senso in attività associative e pubbliche,
in scopi comuni con gli altri cittadini. Una libertà nella comunità, non
fuori di essa o contro di essa.
Di
qui il rifiuto radicale della grettezza, tipicamente moderna, di
ridurre tutto ad una valutazione in termini di costi e ricavi, di
profitti e di perdite. L’economia elevata a criterio totalizzante della
vita sulla Terra: ecco l’ideologia del nostro tempo. A cui va
contrapposta l’humanitas, l’etica dei valori intesi come l’eccellenza in
ciascun campo. In politica, questo richiede «la capacità di giudicare e
di fare la cosa giusta nel luogo giusto, al momento giusto e nel modo
giusto» (MacIntyre). Non essere ricchi, belli, telegenici, raccomandati,
ma bravi nelle competenze necessarie a fare politica: saper scrivere,
saper parlare, conoscere la storia e le leggi, capire le esigenze
popolari, immaginare soluzioni. E, prima e al di sopra di tutto ciò,
lottare per il bene collettivo attraverso il conflitto tra idee – questa
è la sola ragione per preferire la democrazia a sistemi di
addomesticamento politico: perché dovrebbe permettere ai migliori di
emergere nell’agone politico.
Il nuovo Umanesimo passa di qui, e solo di qui. E da domani torniamo a parlare del volgo profano.