sabato 29 giugno 2013

Comunità: l'ultima speranza...



di Alessio Mannino

L’attualità fa pena, e mi riferisco in particolare a quella italiana, paludosa, noiosa, deludente, avvilente. Mi scuseranno i lettori se oggi mi prendo una pausa dal commentare i fatti di politica interna e parlo di un oggetto scomparso dall’orizzonte del dibattito quotidiano: la filosofia. Sia chiaro: da orecchiante, quale è il sottoscritto.
La filosofia dovrebbe essere, assieme alla storia, la base culturale di un buon cittadino che vuole impegnarsi in prima persona nell’attività più alta: la politica.
In questi tempi di passioni tristi e ignoranza crassa, il personale politico non solo ha mediamente una cultura generale bassa, ma in genere sa quattro acche in croce di due materie che a scuola vengono relegate ad un ruolo secondario, inferiore all’inglese idioma della globalizzazione opprimente. Questo perché le conoscenze umanistiche, e in particolar modo le due materie di cui sopra, nonostante il bla bla dei convegni sono shit, per le esigenze del dio Mercato. E in Italia siamo ancora a livelli sopportabili, pensate un po’.
Ecco, vorrei parlare proprio dell’ideologia dominante dell’Economia (capitalismo assoluto, la chiama sulla scia di Preve l’ottimo Fusaro, uno dei pochi nouveau philosophes critici del piattume imperante: leggetevi il suo “Minima mercatalia”). Per contrastarla serve un pensiero forte da contrapporle. Ma niente sofismi, teoremi e sistemi: urge una filosofia d’azione, nel senso più ampio: filosofia politica e di vita. Perché contro l’irrazionalità del nostro modo di vivere, molto razionalista ma folle nel suo ridurre ogni cosa al costo di mercato, l’unica via di salvezza può essere la saggezza, una sapiente costruzione di concetti teorici e regole pratiche basate sul sentimento, sull’istinto di comunità, sugli insegnamenti della natura.
Di una rivoluzione come restaurazione necessitiamo come il pane. Un ordine interiore e comunitario insieme, perché gli sdegnosi “autarchi” chiusi nel proprio io non sono che il rovescio snob dell’individualismo gretto e pecoraio. Rivoluzionario, perché distruttore dell’esistente fin nella sua più intima logica, che è l’arida contabilità del denaro. Restauratore, perché in latino “rivoluzione” significa ritorno, e l’uomo post-moderno non deve fare altro, in fin dei conti, che riscoprire i suoi bisogni più elementari e umani, resi irriconoscibili dall’edonismo pompato da un’economia in perenne sovraccarico.
Il nostro non è il tempo per costruire: è il tempo per distruggere. Ma per poter fare tabula rasa dei falsi idoli, alle masse occorrono valori in base ai quali usare il martello, e per crederci bisogna vedere una luce in fondo al tunnel. La luce è una visione del mondo, fatta di poche semplici idee che chiunque possa capire e fare proprie perché le sente sue. Bando all’intellettualismo, dunque, per quanto lucido e veritiero. Abbiamo sete di una terra promessa a cui aspirare. Non un altro sol dell’avvenire o paradiso terrestre, non l’ennesimo “uomo nuovo” o impero millenario. Quel che manca per far ri-circolare il sangue nelle vene è un mito da interiorizzare, un orizzonte ideale che metta in moto la volontà, che dia l’immagine plastica della liberazione.
Mito: attenzione, non tanto, o non solo, in senso soreliano, cioè come méta irrazionale, motore di azione politica anzitutto, nel senso originario. Mito, di credenza mistica nella propria radice: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’animo umano», scriveva Simone Weil. La libertà sbracata in licenza nasconde in realtà la manipolazione più totalitaria che sia mai esistita – l’illusoria libertà di consumare l’esistenza come una merce. La direzione opposta è il recupero dell’etica. Volendo tradurre questo concetto in ambito sociale, il suo significato sta nel dotarsi del fine proprio dell’uomo-animale politico: la virtù. Bisogna tornare ad Aristotele, ricavandone l’insegnamento utile a sanare la malattia moderna dell’individualismo. Questo insegnamento, come hanno osservato già da alcuni decenni gli esponenti della corrente neo-aristotelica (non casualmente sorta negli Stati Uniti), può essere definito con la formula di comunitarismo.
Con il fallace argomento che la mia libertà finisce dove comincia quella altrui, restringono sempre di più la mia fino a schiacciarla. La Libertà è semplicemente poter esprimere ciò che si è. Il suo limite non sta nella libertà del prossimo, ma nei beni comuni, ovvero nel corpus di regole, di soggetti e di oggetti appartenenti alla comunità. Questa storia per cui posso fare tutto quel che mi pare purché non rechi danno al mio dirimpettaio presuppone una società di individui separati, isolati, auto-centrati, totalmente presi da sé stessi. È la concezione del singolo come privato, privo di legami, atomo indipendente e assoluto. Una monade leibniziana, o se si preferisce un idiota in senso greco.
Puro delirio. Gli esseri umani di ogni epoca e latitudine non sono mai venuti al mondo senza un padre e una madre, senza una famiglia, senza una società d’appartenenza, senza tradizioni, costumi, modi e visioni di vita predeterminati. Cioè senza quei fatti, dati a priori, che prescindono dal concepimento e dalla volontà. Ciascun uomo e ciascuna donna s’inserisce fin dal suo primo vagito in una trama di ciò che è venuto prima di lui o di lei, e non potrebbe essere diversamente. Il liberalismo, ideologia giustificatrice del borghese capitalista, assume invece come pre-giudizio un individuo che viene dal nulla e diviene “qualcosa” (che so: un adoratore di Satana o un geometra) esclusivamente per suo insindacabile arbitrio. Ora, questa, oltre ad essere una stupidaggine infondata e materialmente infattibile, è una belluina truffa filosofica, che come tutte le truffe danneggia il truffato, ossia chi ci crede. La sostanza che rende umano un uomo è, al contrario, la sua predisposizione alla socialità.
Solo una bestia o un dio può vivere da solo. L’uomo è, per sua natura, un animale politico. Chiaro che gli uomini, insomma, sono mediamente dei pochi di buono, guicciardinianamente fissati sul proprio particulare. Ma su questa parte individualistica, distruttiva, ferina, fa aggio di gran lunga l’altra, l’animale sociale, che si accorda, coopera, cerca il calore e la sicurezza di un insieme più grande, fa progetti e immagina opere impossibili da realizzare senza il concorso altrui.
Attenti: non è l’idealizzazione rousseauiana del buon selvaggio. Ambizione, gloria, sete di ricchezza, fame di potere, ricerca del piacere sono tutti potenti stimolanti del comunitarismo, a patto di essere limitati e incanalati al servizio della collettività. Né Hobbes né Rousseau, ma il vecchio, insuperato e buon Aristotele, che andrebbe recuperato su tutta la linea per ciò che riguarda l’etica e la politica. Pensare che ogni capacità abbia un fine che si tratta di scoprire e sviluppare al meglio, a mio parere costituisce il più onesto e bel modo di battere la disperazione del non-senso. Onesto, perché se pure, se fossimo nichilisti, presupponessimo che ogni senso, ogni ideale, ogni virtù morale è una pia illusione mistificatrice, individuare comunque una finalità interna e immanente a ciascun essere, vuol dire essere sinceri e avere i piedi per terra.
Ora, se l’ottica giusta è, realisticamente, estrarre dalla politica il suo senso intrinseco, questo non può che essere il vivere bene assieme, lo stare bene in comunità: il Bene comune. Presupposto indispensabile per metterlo in pratica è la libertà. L’uomo libero è colui che si auto-governa, che è contemporaneamente sovrano e suddito, ossia cittadino. La condizione di libero sfocia necessariamente nella ricerca di obbiettivi ritenuti validi e positivi per tutta la cittadinanza, perché altrimenti non avrebbe alcun senso, sarebbe una libertà vuota, visto che si agisce sempre in un dato contesto sociale. Si potrebbe dire: libero di far che, se non di realizzare il proprio valore secondo i valori del gruppo cui si appartiene? Sulla scia del filosofo del Liceo, il neo-comunitarista americano MacIntyre sintetizza alla perfezione questo concetto: «il mio bene in quanto uomo coincide assolutamente con il bene di quegli altri con cui sono legato in una comunità umana».
Ecco la via per superare la falsa dicotomia fra interesse privato e collettivo: la loro è una coincidenza di principio. Più mi impegno per fare il bene del mio prossimo, più faccio il mio. Più sono libero di essere me stesso, nel senso di coltivare il mio valore, maggiore è il servizio che rendo alla comunità. È un ribaltamento totale rispetto alla mentalità utilitaristica del liberale: per costui il pericolo da sventare è danneggiare l’altro, dando per scontata un’innata asocialità smentita dai fatti, mentre per il comunitarista la bussola è la libertà che diventa concreta e trova senso in attività associative e pubbliche, in scopi comuni con gli altri cittadini. Una libertà nella comunità, non fuori di essa o contro di essa.
Di qui il rifiuto radicale della grettezza, tipicamente moderna, di ridurre tutto ad una valutazione in termini di costi e ricavi, di profitti e di perdite. L’economia elevata a criterio totalizzante della vita sulla Terra: ecco l’ideologia del nostro tempo. A cui va contrapposta l’humanitas, l’etica dei valori intesi come l’eccellenza in ciascun campo. In politica, questo richiede «la capacità di giudicare e di fare la cosa giusta nel luogo giusto, al momento giusto e nel modo giusto» (MacIntyre). Non essere ricchi, belli, telegenici, raccomandati, ma bravi nelle competenze necessarie a fare politica: saper scrivere, saper parlare, conoscere la storia e le leggi, capire le esigenze popolari, immaginare soluzioni. E, prima e al di sopra di tutto ciò, lottare per il bene collettivo attraverso il conflitto tra idee – questa è la sola ragione per preferire la democrazia a sistemi di addomesticamento politico: perché dovrebbe permettere ai migliori di emergere nell’agone politico.
Il nuovo Umanesimo passa di qui, e solo di qui. E da domani torniamo a parlare del volgo profano.

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