In principio fu
Franco Cardini. Sua, l’intuizione. Giusto trent’anni fa, mentre la
critica strabuzzava gli occhi – tra lo stupore e il fastidio – davanti
all’accoglienza entusiastica del pubblico per Il Signore degli anelli,
lo studioso fiorentino azzardò l’analisi più acuta: il viaggio della
Compagnia dell’Anello, come gruppo e in termini di singoli, altro non è
che un viaggio nell’Oltretomba, nell’Aldilà, e in quanto tale un iter
iniziatico, a conclusione del quale tutti raggiungono un mutamento di
status, un cambiamento interiore, attraverso una serie di prove
materiali e spirituali da superare. Più di qualcuno saltò sulla sedia.
L’ambito in cui i critici avevano già pensato di circoscrivere l’opera
tolkieniana era quello inoffensivo del racconto d’avventure, per quanto
riuscito potesse dimostrarsi. Un confine che non giustificherebbe, però,
i cento milioni di copie vendute in ogni angolo del mondo, le ristampe a
cadenza annuale, la consacrazione cinematografica, le nuove generazioni
di fans. Non soltanto l’opera tolkieniana ha resistito alle mode, ma ne
ha generata una delle più fortunate: l’heroic fantasy, con tanto di
case editrici specializzate, riviste, giochi da tavolo e relative app.
Un successo inarrestabile che conferma, piuttosto, come le opere dello
scrittore inglese abbiano saputo dare una risposta a bisogni universali.
«Tolkien offre a una società scettica e demitizzata, sotto forma di una
grande saga fantastica ed eroica, quasi un’epopea, un mito positivo,
fondante, completo e verosimile in cui credere, anche se ci si rende
conto che è la favola più lunga del mondo». Così Gianfranco de Turris
introduce “J. R. R. Tradizione e modernità nel Signore degli anelli”, il
prezioso e aggiornato volume di Stefano Giuliano (Bietti, pp. 345, €
22) appena tornato in libreria che, nella sterminata produzione di libri
sull’opera tolkieniana, va a colmare un vuoto siderale. E lo fa proprio
raccogliendo e approfondendo lo spunto offerto a suo tempo da Franco
Cardini. «In Italia scarseggiano studi che analizzano specificatamente
il retroterra culturale tolkieniano in funzione della simbologia
mitologica, ossia quali siano i fondamenti di certi suoi personaggi,
luoghi ed episodi – scrive ancora de Turris – e Stefano Giuliano
analizza le influenze e le suggestioni che stanno al fondo di tale
narrativa mettendo il Signore degli anelli a confronto con la storia
delle religioni, l’antropologia culturale, la mitologia indoeuropea,
l’epica medioevale, i romanzi arturiani, le chansons de geste e le saghe
norrene, ricostruendo il senso simbolico di personaggi e azioni».
Nell’attuale società “liquida”, con la perdita di “consenso” di fedi e
credenze, nell’era del precariato globale, la fantasia mito-poietica di
Tolkien, con la sua portata esemplare, le valenze morali collegate alle
vicende dei protagonisti e le foreste di simboli attraversate dal
lettore, hanno avuto successo non tanto e non solo perché narrano storie
avventurose ma perché, in un’epoca segnata dal disincanto, hanno
restituito significato al mito, dato nuovo vigore a idee e valori
antichi, offerto un antidoto al materialismo e al cinismo odierno. «Il
Signore degli anelli si fonda sul dispositivo narrativo della discesa
agli inferi e sul simbolismo di morte e rinascita come racconto fondante
del cammino dei protagonisti», sottolinea Giuliano, classe 1964,
talmente a proprio agio tra immaginario religioso, agiografia medievale e
letteratura cavalleresca da ricostruire passo passo le fonti
letterarie, folkloristiche e mitiche dell’opera tolkieniana. Nella
ricerca, nata come tesi di laurea e pubblicata per la prima volta nel
2001 da Ripostes di Salerno col titolo “Le radici profonde non gelano”,
Giuliano si sofferma su ogni “indizio” utile: il nome di un personaggio o
di un luogo, le citazioni, i riferimenti celati tra le righe e, non
ultimi, gli “stratagemmi” letterari con cui il professore coniugava
sapientemente quanto efficacemente mito e realtà. Ecco che il percorso
iniziatico di Frodo, il portatore dell’Anello, verso Mordor, può essere
letto anche come la migliore metafora possibile della condizione
dell’uomo di oggi in un mondo che sembra affacciarsi sull’orlo del
baratro. Una missione così difficile, la sua, da risultare quasi
“insostenibile”. Eppure Tolkien (non a caso) la affida a un mezzo uomo,
un hobbit, la figura più “fragile” nel ricco parterre di eroi classici,
elfi e guerrieri valorosi a sua disposizione. Con buona pace di Bertolt
Brecht, è fortunato il paese che ha bisogno di eroi. Meglio ancora: il
paese che coltiva una sana cultura dell’eroismo. Tolkien ambiva a
restituire all’Inghilterra quelle storie di dèi e degli eroi dell’epoca
pre-cristiana (sul genere dell’Edda norrena, del Kalevala finnico e del
Nibelungenlied tedesco) che la conquista normanna e la prima rivoluzione
industriale avevano finito per disperdere. Ma, nello stesso tempo, non
trascurava il mondo che aveva intorno. Mordor, oltre a essere una
rappresentazione dell’inferno, lascia intravedere un’inquietante
“somiglianza” con la realtà moderna: «inquinamento atmosferico e
idrogeologico, impoverimento del territorio, rovina del paesaggio,
accumulo di scorie e residui, mentre Sauron pare offrirsi come
rappresentazione del potere assoluto e tirannico». Meglio di chiunque
altro, era stato Elémire Zolla a “inquadrare” Tolkien, sin dalla prima
introduzione all’edizione del 1970: «Autore o amatore di fiabe è colui
che non si fa servo delle cose presenti». Tolkien, uno di noi.
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