di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)
«…e Francesco che è
volato sull’asfalto di un cortile con le chiavi strette in mano, strano
modo per morire…» cantava Francesco Mancinelli nella sua canzone
«Generazione 1978», dedicata ai ragazzi uccisi negli anni di piombo,
vittime del comandamento “uccidere un fascista non è reato”, ai tempi
non solo predicato dalla sinistra ufficiale, ma purtroppo praticato dai
gruppi armati dell’ultrasinistra come Potere Operaio,autore del rogo di
Primavalle. A Francesco Cecchin, giovane militante romano del Fronte
della Gioventù assassinato nel 1979 da persone rimaste sempre ignote, è
dedicata anche un’altra bellissima canzone degli Imperium, “Sera di
giugno”. I fatti, avvenuti 34 anni fa, la notte tra il 28 e il 29 maggio
1979, sono stati raccontati molte volte. Francesco era un ragazzo che
aveva non ancora 18 anni e che militava nel Fronte della Gioventù di via
Migiurtinia, al quartiere cosiddetto Africano, al tempo controllato
quasi militarmente dal Pci e dai gruppi fiancheggiatori. Via Migiurtinia
a sua volta era un circolo emanazione della sezione del Msi di viale
Somalia 5, la Trieste-Salario, il cui animatore e segretario è stato per
molti anni Natale Gianvenuti, oggi scomparso. Il circolo di via
Migiurtinia era mal tollerato dagli intolleranti della sinistra, che sin
dal giorno della sua inaugurazione provocarono scontri per impedire la
sua apertura. Sì perché on quegli anni gli anticomunisti non avevano
diritto a fare politica e in realtà nemmeno ad esistere. “Uccidere un
fascista non è reato”, certo, ma anche “i covi fascisti si chiudono col
fuoco”, e così accadde proprio per via Migiurtinia, che dopo qualche
anno fu costretta alla chiusura, malgrado l’”eroismo” dei suoi
militanti. E proprio questa circostanza ricordò a Francesco Cecchin un
dirigente del Pci della zona, Sante Moretti, che, come lui stesso
ricordò tempo dopo, disse che via Migiurtinia l’avevano chiusa e
avrebbero fatto chiudere anche la Trieste Salario. Ma quella non ci sono
riusciti.
Tornando a quel
1979, Francesco Cecchin aveva una piena sintonia anche con l’emergente
gruppo di Terza Posizione, molto attiva nel quartiere, ma aveva
confidato a Marcello De Angelis, dirigente della formazione, che non gli
sembrava corretto abbandonare il Fronte per passare a Terza Posizione,
pur rimanendo in ottimi rapporti. Tanto è vero che poche ore dopo il suo
omicidio, effettuato, come ricorda la sorella Maria Carla, che era con
lui quando fu rincorso e ucciso, da uomini adulti e non da ragazzi come
lui, i militanti della Trieste Salario si rivolsero proprio a Marcello
De Angelis per realizzare un manifesto, poiché sapeva disegnare e
scriveva canzoni. Così, ricorda De Angelis, «a casa mia, in quattro
(c’erano degli amici di Francesco della Trieste Salario), lavorammo sul
manifesto che poi è diventato famoso e che è quello che termina con la
frase “Lui vive, lui combatte”. C’è anche un altro particolare che vale
la pena raccontare, su questo manifesto. Inizialmente sarebbe dovuto
essere stampato in serigrafia alla sezione del Msi di viale Somalia, ma
poi, per intervento di Gianfranco Fini, allora segretario nazionale del
Fronte della Gioventù, si mise a disposizione la rotativa del Secolo
d’Italia che “sfornò” quei manifesti che tutti conosciamo a migliaia e
migliaia, e che ancora oggi vengono affissi nelle strade di Roma.
Ricorda De Angelis: «E quella fu la prima volta che vidi una mia
creazione uscire in serie da una rotativa, fu una grande emozione…».
Sappiamo tutti che le indagini, come dice la stessa sentenza della
magistratura, furono superficiali e peggio, e che per questo non si è
riusciti a risalire agli assassini. Ma il colpevole è il clima di quei
tempi, a Roma, a Milano, dappertutto in Italia, che incitava all’odio di
parte e che non permetteva a chi non fosse di sinistra di esprimersi né
tantomeno di avere agibilità politica. Così, lo spazio per la libertà
di parola andava conquistato: ed era quello che al Trieste Salario
facevano i giovani militanti del Fronte, come ricordano oggi due
attivisti di allora, Fabrizio Bruschelli e Flavio Amadio, tra i primi a
giungere sul luogo dell’omicidio. «Alle sinistre dava molto fastidio
quello che facevamo nel quartiere, il nostro impegno sociale, per il
verde – dicono – perciò cercavano di farci tacere in tutti i modi.
Pestaggi, aggressioni, intimidazioni di ogni tipo, attentati alle nostre
sedi». Proprio qualche giorno prima del suo assassinio Francesco
Cecchin era stati circondato da una ventina di attivisti comunisti con
cui aveva avuto una discussione per una storia di affissioni di
manifesti. I giovani del Fronte li attaccavano, e i comunisti li
coprivano quando non li strappavano.
Altri tempi? Non
tanto, se in occasione dell’intitolazione dei giardini di piazza
Vescovio a Francesco Cecchin, voluta da Gianni Alemanno, ai tempi anche
lui dirigente del FdG, intitolazione avvenuta nel febbraio dello scorso
anno, il Pd e l’Anpi sono insorti in modo vergognoso e incomprensibile
contro un’iniziativa civile e pacificatrice. Il martire va ricordato,
per loro, solo se di sinistra, altrimenti deve vigere la marxiana
“damnatio memoriae”. I giardini sono stati intitolati e oggi 15 giugno
centinaia di amici vecchi e nuovi di Francesco Cecchin, riuniti nel
Comitato di piazza Vescovio, hanno presentato agli abitanti del
quartiere la suggestiva stele di marmo che ricorda il giovane
diciassettenne assassinato tanti anni fa da chi non la pensava come lui.
Il Comitato ha anche intenzione di apporre vicino il monumento una
piccola targa di rame con una breve spiegazione e ricordo. L’unica cosa
certa è che si tratta dell’ennesimo omicidio politico senza colpevoli:
la corte infatti sentenziò nelle motivazioni che Francesco non si gettò
nel vuoto per fuggire, poiché tra l’altro conosceva benissimo quel
cortile, ma fu picchiato e poi buttato esanime di sotto, e quella caduta
di oltre quattro metri ne decretò la fine dopo 17 giorni di agonia. Una
lapide lo ricorda in via Montebuono, proprio davanti al cortile dove fu
buttato in quella sera di Primavera dai suoi carnefici. C’è scritto
così: «Mai più ruberete la sua voce e fermerete i suoi passi. Per lui
ora parla il vento. Come mare è il suo cammino. Francesco Maria Cecchin,
caduto per la rivoluzione. Il popolo lo onora».
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