Parlare di Adriano Romualdi, oggi, a quarant’anni dalla sua tragica scomparsa, avvenuta il 12 agosto 1973,
a causa di un incidente stradale, più che una celebrazione appare come
una necessità. Una necessità segnata dalle confusioni, dal grigiore
politico, dall’insipienza culturale di questi ultimi tempi, laddove in
Adriano Romualdi l’impegno profondo è stato, sul campo giovanile della
militanza e poi della cultura “impegnata a destra”, il segno
distintivo della sua vita.
Docente universitario (di Storia contemporanea), avviato ad
una brillante carriera, Adriano Romualdi ha saputo coniugare
l’originalità degli studi, verso filoni, negli Anni Sessanta-Settanta,
emarginati e sottovalutati (pensiamo alla Rivoluzione
conservatrice tedesca, alla rilettura del pensiero di Nietzsche,
all’europeismo integrale, agli autori del “Romanticismo fascista”, a
Platone) con una coerente ed integrale visione organica della destra,
che proprio i suoi studi hanno irrobustito, facendola uscire dal cono
d’ombra di certo qualunquismo patriottardo, ieri, purtroppo come oggi,
incombente.
Ecco allora la lettura della nicciana Wille zur Macht in ragione – egli scrive, nel 1971 – della “…volontà
di lavorare per la creazione di una Destra meno pateticamente
sprovveduta, più consapevole ed agguerrita, perché, certo, nonostante
l’interrogativo di Longanesi, non ci salveranno le vecchie zie”.
Ecco l’affresco “Sul problema di una Tradizione Europea” (1973), che
diventa una sintesi esemplare d’una fisionomia metastorica del nostro
Occidente ed insieme sa essere prefigurazione futura, problematica
ricerca di “una forma spirituale capace di contenere tre e più millenni
di spiritualità europea”.
Ed ancora, in modo esplicito, ecco il suo interrogarsi, in “Idee
per una cultura di destra” (1965, II edizione 1970), sull’ “essere di
destra”, fissato nel rifiuto dei movimenti “sovvertitori”, figli della
rivoluzione francese (dal liberalismo al socialismo) e della “natura
decadente dei miti razionalistici, progressistici, materialistici”,
sostenuto dalla visione di uno Stato-totalità organica, “dove i valori
politici predominano sulle strutture economiche” , e da una
rivendicazione orgogliosa di una “spiritualità aristocratica, religiosa e
guerriera”.
In questa rivendicazione rientravano alcuni dei filoni principali
della cultura tradizionale: De Maistre e De Bonald, ma anche l’Hegel de
“La filosofia del diritto”, ovviamente il già citato Nietzsche, la
“Konservative Revolution”, Julius Evola. Autori e riferimenti “forti”
che non facevano tuttavia perdere di vista ad Adriano Romualdi i
“compiti nuovi” di una cultura impegnata “a destra”, che doveva sapersi
confrontare con la realtà, integrando visioni mitiche ad enucleazioni
logiche, pensiero scientifico ed antropologia, ecologia (all’epoca agli
inizi, ma vista da Adriano Romualdi quale conservazione delle
differenze e delle peculiarità “necessarie all’equilibrio spirituale
del pianeta”) ed ovviamente ricerca storica, sostenuta da una visione
non banalmente evolutiva.
Su queste robuste fondamenta spirituali, qui appena tratteggiate,
poggia l’idea di una destra politica “non qualunquista”. E’ nel
settembre 1972 che Adriano Romualdi, in occasione dell’annuale convegno
della rivista “L’Italiano”, diretta da suo padre Pino, figura storica
del Msi, evidenzia la distinzione tra destra (politica e culturale) e
qualunquismo, nelle sue varie forme (qualunquismo politico, patriottico,
culturale).
La critica di Adriano Romualdi è rivolta a chi protesta “contro
qualcosa”, senza sapere bene “per che cosa”. E’ la critica verso i
“prudenti”, che si lamentano nell’ombra e nell’urna, ma non vogliono
analizzare nel profondo le ragioni della crisi in atto. E quindi si
accontentano dei piccoli orizzonti del qualunquismo patriottico, di “una
qualunque patria in bianco-rosso e verde, con tante bandiere in mano e
maggioranze silenziose di casalinghe e di pensionati. Una patria
qualunque per qualunquisti”, laddove la dimensione del confronto/scontro
– parliamo degli Anni Settanta del ‘900 – è quella tra imperi
continentali, tra Usa e Urss.
Contro il qualunquismo politico e “patriottardo”, essenziale – dice
Adriano Romualdi – è sconfiggere il “qualunquismo della cultura”:
“L’accettazione della cultura per la cultura, quasi che l’intelligenza
rappresenti un valore in sé e l’intellettuale un personaggio che vada
difeso in quanto tale”. C’ è in questo anche il rifiuto di una destra
“d’ordine” – come andava allora di moda – che “monta la guardia” alla
scuola, all’Università e quindi anche al mondo della cultura, senza
porsi il problema dei contenuti che in tali ambiti vengono veicolati.
In questa essenziale rassegna di idee e di orientamenti, che – ci
auguriamo – abbia sollecitato la curiosità e la voglia di
approfondimento, appare evidente come parlare, oggi, di Adriano
Romualdi offra molteplici occasioni di spunto per un’interpretazione
non banale dell’odierna realtà politica, del valore di certe scelte,
del senso di un’appartenenza, la quale, liberata dai riferimenti
contingenti, va comunque “ripensata” sulla base di una visione alta
della politica, della cultura che la sostiene, della “visione della vita
e del mondo” che deve sospingerla.
In questa direzione bene si adatta all’opera di Adriano Romualdi,
quanto preconizzava Donoso Cortes: “Vedo giungere il tempo delle
negazioni assolute e delle affermazioni sovrane”. Con questo spirito lo
ricordiamo a quarant’anni dalla sua scomparsa.
*da destra.it
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