di Luca Siniscalco (Barbadillo.it)
La perturbante ed insieme affascinante vis “inattuale” di J.
R. R. Tolkien non può non colpire un lettore avvertito, consapevole
della ricchezza tematica, linguistica, narrativa e persino teoretica
dell’opera e insieme dell’intera indagine culturale del professore di
Oxford. Ne Il Signore degli Anelli – ma più in generale nell’intera epica ambientata nel mondo di Arda
– si realizza infatti un processo di natura centripeta: le amplissime
ed eterogenee ricerche dell’autore inglese, come affluenti di un fiume
in piena, si riversano in un alveo centrale, configurando uno spazio
unitario ed insieme policentrico. Multiformi risultano essere dunque le
radici della creazione tolkieniana. Basti qui indicare, a titolo
esemplificativo, gli studi linguistici e filologici compiuti fin dalla
giovinezza e divenuti professione a seguito del conseguimento della
docenza universitaria, l’indagine letteraria, la passione per le saghe
ed i miti, fra cui in particolare il Beowulf, di cui lo studioso realizzo un’analisi, intitolata Beowulf: The Monsters and the Critics, ritenuta tuttora di notevole validità scientifica.
La componente connessa all’impianto mitico, simbolico ed archetipico di Tolkien è oggetto del recente saggio di Stefano Giuliano, J. R. R. Tolkien. Tradizione e modernità nel Signore degli Anelli (Edizioni Bietti, Milano 2013). Si tratta dell’edizione riveduta – di fatto esito di una sostanziale riscrittura – del volume Le radici non gelano (Ripostes,
Battipaglia 2001) la quale, attraverso un’esposizione lucida e
coinvolgente, si pone l’arduo compito di proporre una nuova chiave di
lettura de Il Signore degli Anelli, unendo ipotesi ermeneutiche eterodosse ad un valido apparato scientifico, basato su una bibliografia davvero sterminata.
Giuliano delinea un’esegesi delle vicende legate all’One Ring a
partire dall’assunzione di un dato inoppugnabile, anche se ancora oggi
sovente contestato: la plurivocità dei capolavori letterari e
l’intersecarsi, in essi, di differenti piani di lettura che
dialetticamente si sovrappongono, divergono e si sintetizzano. Il
pluralismo epistemologico continua tuttavia ad incutere timore presso i
soloni del pensiero unico, incapaci di concepire la possibile esistenza
di diversi piani del reale che trascendano quello meramente letterario,
specialmente nei riguardi dell’opera tolkieniana.
Trova così legittimazione la rivendicazione polemica di
Gianfranco de Turris, eminente studioso di Tolkien ed autore della
prefazione al volume di Giuliano, secondo cui le differenti
“interpretazioni non s’inficiano o contraddicono a vicenda, bensì si
integrano fra loro”. Interpretare allora Tolkien oltre il piano
linguistico, psicoanalitico e sociologico non significa rifiutare la
loro validità, bensì offrire una diversa angolazione capace di fornire
una spiegazione di componenti dell’opera altrimenti incomprensibili,
perché inscindibilmente connesse ad una dimensione simbolica e
metaforica – intese come apertura dinanzi al mistero in quanto,
etimologicamente, meta-ferein, “portare oltre” – in un superamento del materiale e del contingente all’interno di un’inquadratura trasfigurante.
“Nuovi occhi per il più lontano. E una nuova coscienza per verità
restate fino ad oggi mute”, scrive Nietzsche a titolo programmatico
nella prefazione a L’Anticristo. Un approccio genealogico acuto,
diretto ambiziosamente a calarsi nel baratro dei concetti e dei fenomeni
e a ricostruirne non la scaturigine iniziale bensì la provenienza
processuale e l’emergenza storica. Uno scorgere che è insieme un sapere,
come rivela saggiamente il mondo greco attraverso la tragedia di Edipo,
ove le rispettive differenze tendono a sfumare. Un solco metodologico
ed interpretativo che l’opera di Giuliano compenetra e congiuntamente
configura, da un lato ampliando le ricerche già svolte in Italia,
dall’altro suggerendo nuovi spunti per ricerche future. Scelta
ermeneutica decisiva dell’autore, da cui si dipanano vasti
approfondimenti, è l’interpretazione del Signore degli Anelli come un viaggio iniziatico, percorso di crescita spirituale dei protagonisti conseguito mediante un iter simbolico
rifacentesi alle civiltà antiche, accomunate, nell’ottica perennialista
fatta propria dall’autore, da riferimenti sapienziali e mitologici
originariamente comuni.
Giuliano impiega dunque nel proprio saggio il vastissimo patrimonio
mitico e religioso indoeuropeo, dal mondo classico latino e greco a
quello barbarico, dall’epica medievale ai romanzi arturiani, dalle chansons de geste alla Divina Commedia, dalle saghe del Beowulf e del Kalevala sino ai nessi con l’epopea di Gilgamesh e
la tradizione vedica. Il materiale, sconfinato, è maneggiato con
maestria, grazie all’inquadramento del patrimonio mitico in percorsi
analitici strutturati sulla base di richiami a vedute e temi elaborati
da grandi intellettuali a cui Giuliano si riferisce, talora in modo
esplicito, talora in via indiretta. Fra i principali: Dumézil, per
quanto concerne la tripartizione funzionale indoeuropea; Eliade, in
virtù dei suoi studi sulla religione e sul simbolo; Jung ed Hillman, in
riferimento alle tematiche dell’inconscio collettivo e degli archetipi.
Lo studio mira, a partire da un’analisi della simbologia presente nel
mondo mitopoietico “subcreato” da Tolkien, a stabilire una connessione
con l’evo moderno e le sue contraddizioni. “Scomparsa ogni metafisica,
crollate le gerarchie, private di senso fedi e credenze, divenuti
precari tutti i modelli di riferimento, i libri di Tolkien, con il loro
portato eroico-mitico, le valenze morali collegate alle vicende dei
protagonisti, le foreste di simboli che attraversano il lettore, hanno
avuto successo non tanto e non solo perché narrano storie avventurose,
ma perché, in un’epoca segnata dal disincanto, hanno restituito
significato al mito, dato nuovo vigore ad idee e valori antichi, offerto
un antidoto al materialismo e al cinismo moderni”. Il fantastico appare
così non come uno svago per sognatori e perditempo, bensì come un
ancoraggio ad una patria spirituale edificata per mezzo di simboli, miti
e tradizioni che stanno svanendo nell’annullamento nichilistico di una
modernità tesa a condurre l’uomo in una utopia da intendersi non più
come spazio propositivo e liminale ma come semplice “non-luogo”, deserto
di senso arido e inospitale. “Senza mito ogni civiltà perde la sua sana
e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può
chiudere in unità tutto un movimento di civiltà” afferma Nietzsche ne La nascita della tragedia,
rilevando la criticità della medesima questione. In Tolkien il mito
emerge prepotentemente, secondo Giuliano, nella figura del viaggio
iniziatico, “il cui modello si riassume nella nota formula:
partenza/iniziazione/ritorno, dove l’esperienza della morte e della
rinascita, che sempre si accompagna al penetrare nell’Altro Mondo e
all’uscirne, si configura come evento trasfigurante, di crescita fisica e
spirituale, che conduce i protagonisti ad una condizione di tipo
superiore”.
L’iniziazione è così attuazione di una morte al mondo capace di condurre ad un trans-ire diretto
all’acquisizione di un’identità rinnovata. Tale dinamica si mostra
nell’alchimia, nelle mitologie tradizionali ed anche nel cristianesimo,
in cui essenziale è per il fedele la costruzione di un “corpo glorioso”
sul modello del mistero cristico, quello che l’amico e collega di
Tolkien C. S. Lewis riproduce nel personaggio di Aslan, figura
esperiente il miracolo della morte e resurrezione.
Nel Signore degli Anelli l’iniziazione si invera nel viaggio,
che è “un percorso di formazione dell’Io, un itinerario di
sperimentazione interiore dove si sviluppano facoltà e abilita per
divenire altro da sé, secondo uno schema di perdita (del vecchio essere)
ma anche di acquisizione (di un nuovo sé)”. Tale viaggio verso il
centro, in tensione verso la polarità assiale, si realizza mediante la nekyia,
una discesa agli Inferi sperimentata come catabasi spirituale. Tale
motivo, già mitico (basti pensare a Gilgamesh, Eracle o Orfeo), omerico,
virgiliano e dantesco, si ripropone nel Lord secondo uno stilema di reiterazione volto a delineare una direttiva di Bildung metamorfica
e progressiva, attraverso la quale l’eroe immerge la propria dimensione
archetipica nel flusso del divenire, acquisendo maturazione e
consapevolezza.
Attorno a tali tematiche Giuliano si impegna nella trattazione di
numerose altre questioni care a Tolkien: il problema della tecnica e
della scienza moderna, la natura del male e del peccato, le dinamiche
contraddittorie dell’animo umano, i concetti di guerra e regalità, il
potere del linguaggio e della dialettica, e via dicendo. L’intera
ermeneutica del saggio trova un poderoso riscontro nella distinzione
operata da Tolkien stesso fra le nozioni di allegoria e applicabilità:
“Personalmente [...] detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue
manifestazioni. Preferisco molto di più la storia, vera o immaginaria,
con i suoi diversi gradi di applicabilità al pensiero e all’esperienza
dei lettori. Penso che molti confondano «applicabilità» con «allegoria»,
ma l’una consiste nella libertà del lettore, l’altra nel voluto dominio
dell’autore”. L’interpretazione di Giuliano risulta così fondata
solidamente: nelle pagine tolkieniane, il lettore non cerca una trama
per così dire “noumenica”, segreta ed allusiva, bensì consegue una
ricezione dell’epos della Terra di Mezzo in base alle proprie categorie esperienziali e spirituali.
Così, sullo sfondo dei miti, si impone il dramma della
contemporaneità, quella che il professore inglese vide sorgere e che
sperimentiamo quotidianamente. “Nostalgia e rimpianto innervano alcune
delle pagine più intense del Lord. Amarezza per il trascorrere
del tempo, per la transitorietà della vita, l’invecchiare del mondo,
mentre il lontano passato e idealizzato e avvertito come aureo e
migliore del presente. Tuttavia, altrettanto forte e la cognizione della
necessita del divenire, dell’inevitabilità del mutamento: l’età degli
Elfi , degli Hobbit, degli Ent sta per compiersi e quella narrata nel Lord sarà
la loro ultima avventura. Un’epoca meravigliosa tramonta, ma la sua
fine, per quanto difficile da accettare, e indispensabile. É necessario
lasciare spazio al tempo degli uomini, anche se molte cose belle
scompariranno per sempre”. In questo bagliore di amor fati o, in modo più coerente rispetto alla Weltanschauung tolkeniana,
di accettazione del destino provvidenziale, si coglie tutta la potenza
di un pilastro della cultura novecentesca, capace di dare forma plastica
a quelle intuizioni della “morte di Dio” (in senso storico), del
“tramonto dell’Occidente” e della tecnica come “impianto” formulate da
titani del pensiero critico.
Rimane in Tolkien uno slancio di speranza, quella virtù teologale
così difficile da mantenere integra nei frangenti più drammatici, in
base a cui lo scrittore ha affiancato agli archetipi eroici tradizionali
delle figure radicalmente innovative, in quanto foriere di una
rinnovata potenzialità mitica: gli Hobbit, “eroi eminentemente moderni”.
(Antarès, N. 5/2013, Modernità occulta, Edizioni Bietti, Milano 2013)
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