giovedì 8 agosto 2013

Tradizione e modernità nel Signore degli Anelli” di Stefano Giuliano...

di Luca Siniscalco (Barbadillo.it)

La perturbante ed insieme affascinante vis “inattuale” di J. R. R. Tolkien non può non colpire un lettore avvertito, consapevole della ricchezza tematica, linguistica, narrativa e persino teoretica dell’opera e insieme dell’intera indagine culturale del professore di Oxford. Ne Il Signore degli Anelli – ma più in generale nell’intera epica ambientata nel mondo di Arda – si realizza infatti un processo di natura centripeta: le amplissime ed eterogenee ricerche dell’autore inglese, come affluenti di un fiume in piena, si riversano in un alveo centrale, configurando uno spazio unitario ed insieme policentrico. Multiformi risultano essere dunque le radici della creazione tolkieniana. Basti qui indicare, a titolo esemplificativo, gli studi linguistici e filologici compiuti fin dalla giovinezza e divenuti professione a seguito del conseguimento della docenza universitaria, l’indagine letteraria, la passione per le saghe ed i miti, fra cui in particolare il Beowulf, di cui lo studioso realizzo un’analisi, intitolata Beowulf: The Monsters and the Critics, ritenuta tuttora di notevole validità scientifica.


La componente connessa all’impianto mitico, simbolico ed archetipico di Tolkien è oggetto del recente saggio di Stefano Giuliano, J. R. R. Tolkien. Tradizione e modernità nel Signore degli Anelli (Edizioni Bietti, Milano 2013). Si tratta dell’edizione riveduta – di fatto esito di una sostanziale riscrittura – del volume Le radici non gelano (Ripostes, Battipaglia 2001) la quale, attraverso un’esposizione lucida e coinvolgente, si pone l’arduo compito di proporre una nuova chiave di lettura de Il Signore degli Anelli, unendo ipotesi ermeneutiche eterodosse ad un valido apparato scientifico, basato su una bibliografia davvero sterminata.


Giuliano delinea un’esegesi delle vicende legate all’One Ring a partire dall’assunzione di un dato inoppugnabile, anche se ancora oggi sovente contestato: la plurivocità dei capolavori letterari e l’intersecarsi, in essi, di differenti piani di lettura che dialetticamente si sovrappongono, divergono e si sintetizzano. Il pluralismo epistemologico continua tuttavia ad incutere timore presso i soloni del pensiero unico, incapaci di concepire la possibile esistenza di diversi piani del reale che trascendano quello meramente letterario, specialmente nei riguardi dell’opera tolkieniana.
Trova così legittimazione la rivendicazione polemica di Gianfranco de Turris, eminente studioso di Tolkien ed autore della prefazione al volume di Giuliano, secondo cui le differenti “interpretazioni non s’inficiano o contraddicono a vicenda, bensì si integrano fra loro”. Interpretare allora Tolkien oltre il piano linguistico, psicoanalitico e sociologico non significa rifiutare la loro validità, bensì offrire una diversa angolazione capace di fornire una spiegazione di componenti dell’opera altrimenti incomprensibili, perché inscindibilmente connesse ad una dimensione simbolica e metaforica – intese come apertura dinanzi al mistero in quanto, etimologicamente, meta-ferein, “portare oltre” – in un superamento del materiale e del contingente all’interno di un’inquadratura trasfigurante.


“Nuovi occhi per il più lontano. E una nuova coscienza per verità restate fino ad oggi mute”, scrive Nietzsche a titolo programmatico nella prefazione a L’Anticristo. Un approccio genealogico acuto, diretto ambiziosamente a calarsi nel baratro dei concetti e dei fenomeni e a ricostruirne non la scaturigine iniziale bensì la provenienza processuale e l’emergenza storica. Uno scorgere che è insieme un sapere, come rivela saggiamente il mondo greco attraverso la tragedia di Edipo, ove le rispettive differenze tendono a sfumare. Un solco metodologico ed interpretativo che l’opera di Giuliano compenetra e congiuntamente configura, da un lato ampliando le ricerche già svolte in Italia, dall’altro suggerendo nuovi spunti per ricerche future. Scelta ermeneutica decisiva dell’autore, da cui si dipanano vasti approfondimenti, è l’interpretazione del Signore degli Anelli come un viaggio iniziatico, percorso di crescita spirituale dei protagonisti conseguito mediante un iter simbolico rifacentesi alle civiltà antiche, accomunate, nell’ottica perennialista fatta propria dall’autore, da riferimenti sapienziali e mitologici originariamente comuni.


Giuliano impiega dunque nel proprio saggio il vastissimo patrimonio mitico e religioso indoeuropeo, dal mondo classico latino e greco a quello barbarico, dall’epica medievale ai romanzi arturiani, dalle chansons de geste alla Divina Commedia, dalle saghe del Beowulf e del Kalevala sino ai nessi con l’epopea di Gilgamesh e la tradizione vedica. Il materiale, sconfinato, è maneggiato con maestria, grazie all’inquadramento del patrimonio mitico in percorsi analitici strutturati sulla base di richiami a vedute e temi elaborati da grandi intellettuali a cui Giuliano si riferisce, talora in modo esplicito, talora in via indiretta. Fra i principali: Dumézil, per quanto concerne la tripartizione funzionale indoeuropea; Eliade, in virtù dei suoi studi sulla religione e sul simbolo; Jung ed Hillman, in riferimento alle tematiche dell’inconscio collettivo e degli archetipi.


Lo studio mira, a partire da un’analisi della simbologia presente nel mondo mitopoietico “subcreato” da Tolkien, a stabilire una connessione con l’evo moderno e le sue contraddizioni. “Scomparsa ogni metafisica, crollate le gerarchie, private di senso fedi e credenze, divenuti precari tutti i modelli di riferimento, i libri di Tolkien, con il loro portato eroico-mitico, le valenze morali collegate alle vicende dei protagonisti, le foreste di simboli che attraversano il lettore, hanno avuto successo non tanto e non solo perché narrano storie avventurose, ma perché, in un’epoca segnata dal disincanto, hanno restituito significato al mito, dato nuovo vigore ad idee e valori antichi, offerto un antidoto al materialismo e al cinismo moderni”. Il fantastico appare così non come uno svago per sognatori e perditempo, bensì come un ancoraggio ad una patria spirituale edificata per mezzo di simboli, miti e tradizioni che stanno svanendo nell’annullamento nichilistico di una modernità tesa a condurre l’uomo in una utopia da intendersi non più come spazio propositivo e liminale ma come semplice “non-luogo”, deserto di senso arido e inospitale. “Senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà” afferma Nietzsche ne La nascita della tragedia, rilevando la criticità della medesima questione. In Tolkien il mito emerge prepotentemente, secondo Giuliano, nella figura del viaggio iniziatico, “il cui modello si riassume nella nota formula: partenza/iniziazione/ritorno, dove l’esperienza della morte e della rinascita, che sempre si accompagna al penetrare nell’Altro Mondo e all’uscirne, si configura come evento trasfigurante, di crescita fisica e spirituale, che conduce i protagonisti ad una condizione di tipo superiore”.


L’iniziazione è così attuazione di una morte al mondo capace di condurre ad un trans-ire diretto all’acquisizione di un’identità rinnovata. Tale dinamica si mostra nell’alchimia, nelle mitologie tradizionali ed anche nel cristianesimo, in cui essenziale è per il fedele la costruzione di un “corpo glorioso” sul modello del mistero cristico, quello che l’amico e collega di Tolkien C. S. Lewis riproduce nel personaggio di Aslan, figura esperiente il miracolo della morte e resurrezione.
Nel Signore degli Anelli l’iniziazione si invera nel viaggio, che è “un percorso di formazione dell’Io, un itinerario di sperimentazione interiore dove si sviluppano facoltà e abilita per divenire altro da sé, secondo uno schema di perdita (del vecchio essere) ma anche di acquisizione (di un nuovo sé)”. Tale viaggio verso il centro, in tensione verso la polarità assiale, si realizza mediante la nekyia, una discesa agli Inferi sperimentata come catabasi spirituale. Tale motivo, già mitico (basti pensare a Gilgamesh, Eracle o Orfeo), omerico, virgiliano e dantesco, si ripropone nel Lord secondo uno stilema di reiterazione volto a delineare una direttiva di Bildung metamorfica e progressiva, attraverso la quale l’eroe immerge la propria dimensione archetipica nel flusso del divenire, acquisendo maturazione e consapevolezza.


Attorno a tali tematiche Giuliano si impegna nella trattazione di numerose altre questioni care a Tolkien: il problema della tecnica e della scienza moderna, la natura del male e del peccato, le dinamiche contraddittorie dell’animo umano, i concetti di guerra e regalità, il potere del linguaggio e della dialettica, e via dicendo. L’intera ermeneutica del saggio trova un poderoso riscontro nella distinzione operata da Tolkien stesso fra le nozioni di allegoria e applicabilità: “Personalmente [...] detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue manifestazioni. Preferisco molto di più la storia, vera o immaginaria, con i suoi diversi gradi di applicabilità al pensiero e all’esperienza dei lettori. Penso che molti confondano «applicabilità» con «allegoria», ma l’una consiste nella libertà del lettore, l’altra nel voluto dominio dell’autore”. L’interpretazione di Giuliano risulta così fondata solidamente: nelle pagine tolkieniane, il lettore non cerca una trama per così dire “noumenica”, segreta ed allusiva, bensì consegue una ricezione dell’epos della Terra di Mezzo in base alle proprie categorie esperienziali e spirituali.


Così, sullo sfondo dei miti, si impone il dramma della contemporaneità, quella che il professore inglese vide sorgere e che sperimentiamo quotidianamente. “Nostalgia e rimpianto innervano alcune delle pagine più intense del Lord. Amarezza per il trascorrere del tempo, per la transitorietà della vita, l’invecchiare del mondo, mentre il lontano passato e idealizzato e avvertito come aureo e migliore del presente. Tuttavia, altrettanto forte e la cognizione della necessita del divenire, dell’inevitabilità del mutamento: l’età degli Elfi , degli Hobbit, degli Ent sta per compiersi e quella narrata nel Lord sarà la loro ultima avventura. Un’epoca meravigliosa tramonta, ma la sua fine, per quanto difficile da accettare, e indispensabile. É necessario lasciare spazio al tempo degli uomini, anche se molte cose belle scompariranno per sempre”. In questo bagliore di amor fati o, in modo più coerente rispetto alla Weltanschauung tolkeniana, di accettazione del destino provvidenziale, si coglie tutta la potenza di un pilastro della cultura novecentesca, capace di dare forma plastica a quelle intuizioni della “morte di Dio” (in senso storico), del “tramonto dell’Occidente” e della tecnica come “impianto” formulate da titani del pensiero critico.


Rimane in Tolkien uno slancio di speranza, quella virtù teologale così difficile da mantenere integra nei frangenti più drammatici, in base a cui lo scrittore ha affiancato agli archetipi eroici tradizionali delle figure radicalmente innovative, in quanto foriere di una rinnovata potenzialità mitica: gli Hobbit, “eroi eminentemente moderni”.

(Antarès, N. 5/2013, Modernità occulta, Edizioni Bietti, Milano 2013)

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