di Giorgio Ballario (Barbadillo.it)
Quarantasei anni fa a La Higuera, un minuscolo villaggio sulle montagne boliviane, alcuni colpi d’arma da fuoco misero fine alla vita intensa, avventurosa, generosa e controversa di Ernesto “Che” Guevara.
A sparargli, mentre era ferito e prigioniero, furono i soldati delle
forze antiguerriglia boliviane, ma il colpo di grazia, pare, venne dato
da Felix Rodriguez, un agente della Cia.
A quasi mezzo secolo di distanza è difficile scrivere senza retorica di un uomo che è diventato un’icona della seconda metà del XX secolo, e ancor oggi rappresenta un simbolo universale.
E come tutti i simboli è stato sfruttato e distorto a destra e manca,
per ragioni politiche, culturali e finanche commerciali. A cominciare
dai suoi ex compagni di lotta, Fidel Castro e i dirigenti della
rivoluzione cubana, che pur essendo entrati in contrasto con Guevara su
molti punti, approfittarono della sua morte per trasformarlo in un
“santo” laico, così come era già stato fatto con Camilo Cienfuegos.
Non è rimasto molto dei sogni e degli ideali che animarono la vita
del “Che”: la rivoluzione cubana e il progetto, forse ingenuo, di dar
vita a una sollevazione totale dell’America Latina contro lo scomodo
vicino yanqui. Eppure la figura del ribelle argentino –
perché questo era il giovane Ernesto, prima ancora che un guerrigliero
rivoluzionario – continua ad affascinare le giovani generazioni.
Un fascino pre-politico, romantico e universale. Perché Ernesto
Guevara, al di là di ogni considerazione storica, politica e ideologica,
rappresenta a suo modo l’archetipo dell’eroe. Dell’uomo che assume su
di sé un compito, un’impresa collettiva, e cerca in modo disinteressato
di portarla a termine, costi quel che costi. Nel caso, pagando anche con
la propria vita.
«Beato il popolo che non ha bisogno di eroi», scriveva Bertolt
Brecht. E si sbagliava. Perché da che mondo è mondo tutti i popoli hanno
avuto bisogno di eroi. E quando vengono meno questi ultimi, è segno che
il popolo stesso si sta disgregando, sta marcendo o è già mezzo
putrefatto. Pronto per finire nel dimenticatoio della storia ed esser
sostituito da altri popoli.
È per questo motivo che la
figura simbolica di Ernesto Guevara è sopravvissuta alla sua morte,
alla fine del comunismo, al lento disfacimento della rivoluzione cubana e
al crollo delle ideologie. Ed è per lo stesso motivo che il guerrillero heroìco
viene ricordato persino da chi, apparentemente, si trova agli antipodi
della sua parabola politica. Come ha sottolineato anni fa Mario
La Ferla nel volume “L’altro Che” (Stampa Alternativa), già da molti
anni gruppi culturali e formazioni politiche di destra hanno rivalutato
la figura del guerrigliero argentino.
E non è un caso che già nel 1968, a pochi mesi dalla sua morte, il
primo omaggio italiano a Guevara provenne dalla compagnia teatrale del
Bagaglino, notoriamente schierata a destra. Fu Gabriella Ferri a interpretare la canzone “Addio Che”, con testo di Pier Francesco Pingitore
e musica di Dimitri Gribanovski. Le parole dicevano: «Addio Che, la
gente come te non muore nel suo letto, non crepa di vecchiaia. Addio
Che, sei morto nella valle e non vedrai morire la tua rivoluzione. (…)
Addio Che, come volevi tu, sei morto un giorno solo e non poco per
volta. Addio Che, a piangere per te verremo di nascosto le notti senza
luna. Addio Che». Era il “lato B” del singolo “Il mercenario di Lucera”,
interpretato da Pino Caruso.
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