Trieste
è una città che amo. Molti anni fa mi era venuta la tentazione di trasferirmi e
mi ero informato presso il Provveditorato agli Studi. Non mi sarebbe stato
difficile ottenere una cattedra a Monfalcone, che è sì in provincia di Gorizia,
ma si raggiunge con il treno in un quarto d’ora. E per chi, come me, è abituato
alle distanze di Roma e al suo traffico, mi sarebbe sembrato quasi essere un
tutt’uno casa e lavoro. E ogni tanto la tentazione mi torna quando il rumore e
la ripetizione dei giorni m’annoia. So che sarà una delle molteplici occasioni
mancate perché, oramai, la cancrena della Capitale s’è accompagnata
all’anagrafe e, come ben si sa, sono le abitudini le peggiori che si difetta
abbandonarle al loro inutile destino…
Nell’estate
del ’91 mio padre moriva in un letto d’ospedale a Riccione, dove ho trascorso
tanta parte della mia infanzia adolescenza e giovinezza. Ero da poco rientrato
da Gorizia, membro della commissione d’esame di maturità nel locale liceo
scientifico di piazza Julia, e ne avevo approfittato, tra una domanda sulla
Critica della Ragion pura di Kant e le componenti dell’interventismo italiano,
per assistere al breve e violento scontro tra la Milizia slovena e tre
carri armati dell’esercito serbo. Il giorno che è morto gli tenevo la mano in
attesa di quanto i medici mi avevano preannunciato. E, conoscendo la sua
passione per la storia (nato nel 1905 da famiglia di origine piemontese e
sabauda ricordava gli anni della Grande Guerra quando in cucina, su una carta
geografica appesa al muro, seguiva le indicazioni del padre spostando le
bandierine tricolori e quelle dell’Impero asburgico), gli parlavo di quanto
avevo visto e degli avvenimenti legati proprio al conflitto. Il respiro s’era
fatto quasi un rantolo gli occhi chiusi il volto pallido e sofferente la mano
dalle lunghe dita quasi ghiaccia. Eppure, quando confusi il porto da dove
l’esercito serbo in rotta s’era imbarcato su navi italiane per sottrarsi
all’annientamento, egli senza aprire gli occhi mi corresse. E, ancora – e
furono le ultime sue parole -, ricordò come, proprio a Trieste, su ad Opicina,
gli austriaci avessero fatto barricate con le vetture del tramvai per impedire
l’arrivo per via di terra dei soldati italiani.
Trieste
e i tanti amici, quelli delle battaglie anni ’70 e poi tutti quelli di generazione
in generazione che si sono succeduti, allegri scanzonati simili ai
‘meridionali’(come essi stessi riconoscono). Citarli tutti impossibile,
offensivo dimenticarne qualcuno…
Dal
4 ottobre a domenica 6 si rinnova l’annuale appuntamento, titolo ‘tutta
un’altra Storia’, presso l’Istituto Carlo Panzarasa (via Ghega 2). Istituto
voluto da Carlo Panzarasa, già volontario di Francia nel btg. Fulmine della
XMas, uomo dai gesti garbati e naturale eleganza, e realizzato per merito,
primo, da sua moglie Marina, una caparbia e risoluta ‘carsolina’. Io vi sarò
per due impegni diretti, venerdì 4 alle 17,30 con un intervento su ‘8 settembre
1943: fine di una nazione’ e il giorno successivo, sempre alla medesima ora,
all’interno del convegno dal titolo ‘Dall’azione alla parola, la testimonianza
come cultura Memorie degli anni Settanta’. E ci sarò non soltanto per
gratificare la mia inossidabile vanità di piccolo intellettuale borghese (atto
di modestia sciatta e becera perché, è noto ormai anche ai sassi, come io
appartenga a quella razza geniale di cui, ad esempio, parlava Baudelaire nella
poesia L’Albatros), ma per una sorta di abbassare la saracinesca, spengere la
radio… Sì, Trieste mi dona una serenità energie una riverniciata alle
screpolature del tempo impietoso!
Dell’8
settembre e dintorni ha detto cose commosse e coinvolgenti Franca Poli proprio
qui su Ereticamente; sulla letteratura quale risguardo sugli anni di piombo mi
sono soffermato in merito al libro Il Nero e la Rossa di Sergio Pucciarelli.
Non vi tornerò sopra. Fra i partecipanti al convegno c’è Marco Valle,
originario di Trieste ma ormai milanese di adozione e per anni figura principe
del Fronte della Gioventù. Un racconto, dunque, alla Merlino… per non perdere
l’abitudine ed estasiare i miei lettori.
Vado
a Milano seconda metà anni ’80, per un convegno sulla filosofia di Martin
Heidegger. In effetti inseguo il fascino di una fanciulla,che ha in dono un
nome bellissimo Vita e che sarà poco attenta e disponibile alla mia ricerca di una…
vita autentica come l’intendeva Carlo Michelstaedter.
Corso
Garibaldi, pub 1888, sulla porta il proprietario, Pietro Valpreda, se ne sta su
una sedia nel caldo afoso di fine luglio. Ci abbracciamo, alla faccia del mondo
della ingiuria malafede infamia…
La sera successiva ci torno a cena e con me Marco.
Divertente vedere gli avventori, in massima parte anarchici e ultra-sinistra,
accostarsi al bancone per un bicchiere, vederci, sorprendersi e, con aria
indifferente, farsi prossimi per ascoltarci. Ecco, anche se non è letteratura,
questo avremmo voluto partecipando agli scontri di Valle Giulia, là dove Sandro
e Laura vissero la stagione del sogno infranto e che, proprio nei romanzi su
quegli anni, ritorna come ricerca del paradiso perduto… Lo scrivo con orgoglio,
stupido forse, ma di chi combattè contro la stagione dell’odio e di morte, che
si sarebbe avverata negli anni successivi, fedele all’insegnamento del Capitano
Corneliu Zelea Codreanu del tanto sacrificio e del tanto amore...
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