Pubblichiamo,
per ricordare il sacrificio di Mario Zicchieri nell'anniversario della
sua morte, un articolo uscito lo scorso anno, proprio in questo giorno,
su Il Secolo d'Italia. Una bella testimonianza, che inquadra al meglio
il clima dell'epoca e i tanti piccoli eroici gesti dei nostri ragazzi.
L'Ultimo sorriso di Mario Zicchieri
Mario Zicchieri era un ragazzo di sedici anni che fu assassinato 37 anni
fa, nel quartiere Prenestino a Roma, da un commando di terroristi
vicini alle Brigate Rosse. Oggi avrebbe 53 anni, se quel 29 ottobre
fosse scampato all’agguato davanti alla sezione del Msi del popolare
quartiere.
Per il suo omicidio non è mai stato punito nessuno. I brigatisti rossi
Morucci, Seghetti e Maccari, indicati come coinvolti nella vicenda da un
pentito nel 1982, sono stati assolti in appello. E così la morte di
“Cremino” è rimasta impunita, come per tanti, troppi, giovani attivisti
missini degli anni ‘70: Angelo Mancia, Paolo Di Nella, Francesco
Cecchin… Erano morti di serie B, hanno accusato in questi anni i
familiari di Zicchieri, e non valeva la pena indagare troppo a fondo.
Forse è così, perché in quegli anni era vero che uccidere un fascista
non era reato. Anzi, per qualcuno, anche un titolo di merito. Sì, perché
quegli anni non furono affatto formidabili, ma terribili: quando i
terroristi dell’estrema sinistra avevano il loro battesimo del fuoco
sparando su inermi ragazzi davanti alle sezioni dei “nemici”, come
accadde ad Acca Larentia, in via Zabarella a Padova, al Prenestino, vuol
dire che si sono persi di vista tutti i punti di riferimento politici,
morali e sociali. Era come se una gigantesca ubriacatura si fosse
impadronita delle frange estreme della sinistra, che nel suo delirio
coinvolgeva anche fasce di giovani tendenzialmente più moderati. Ma
allora l’antifascismo era un collante che funzionava sempre, specie se
condito col furore quasi religioso di chi crede solo alla sua ragione. E
allora attentati, manifestazioni, assalti, agguati, colpi di pistola e
di mitra, bombe contro coloro che erano dipinti come l’incarnazione del
male, gli esponenti del Msi. E l’odio diventava tanto più cieco quando i
militanti missini, come nel caso del quartiere Prenestino, non
accennavano a mollare, persistendo nella loro permanenza fisica e
nell’attività politica e sociale in una zona che per definizione doveva
essere “rossa”. Non piaceva a chi controllava il territorio: i
“fascisti” dovevano sparire, soprattutto se stavano facendo un buon
lavoro.
E quel giorno i terroristi decisero di colpire: spararono con fucili a
canne mozze ai tre giovanissimi che stavano davanti alla sezione di via
Gattamelata. Claudio Lombardi era uno di questi giovani, che insieme ai
suoi coetanei Mario Zicchieri e Marco Luchetti stava presidiando la sede
in attesa che fosse ripristinata la porta blindata fatta saltare in un
attentato avvenuto pochi giorni prima. Dentro i locali c’era un operaio
che stava ripristinando una grata interna dalla quale ignoti avevano
tentato di entrare la notte precedente. «Sì, mi ricordo ancora tutto di
quel pomeriggio – racconta Claudio Lombardi in procinto di andare alla
commemorazione per Mario che ogni anno si svolge al Prenestino – Eravamo
solo noi tre, che stavamo aspettando il fabbro per rimontare il
portone. Oggi stupisce pensare che per fare attività politica ci fosse
bisogno di una porta blindata, ma allora le cose andavano così: ci
venivano a cercare per eliminarci fisicamente di notte e di giorno, la
sera spesso non potevamo rientrare in casa perché ci aspettavano, la
sede era oggetto di attentati frequentissimi – ricorda Lombardi – E non
solo la sede veniva colpita, ma anche le case, le automobili, gli
esercizi commerciali degli iscritti al Msi o dei frequentatori della
sezione, come sa bene il ferramenta all’angolo…». Ma quel 29 ottobre,
secondo una strategia che secondo Lombardi era pianificata, lo scontro
si sarebbe dovuto alzare di livello: «Saranno state le cinque, io ero al
centro davanti la porta, Marco Luchetti alla mia destra appoggiato
all’ingresso e Mario Zicchieri alla mia sinistra. Arrivò questa 128
chiara e ne scesero due persone che indossavano un trench, con scoppole e
occhiali da sole. Scesero, estrassero i fucili e si apprestarono a
sparare. Sono vivo soltanto perché ci sottoposero a un fuoco incrociato:
ossia ognuno sparava in diagonale, con il risultato che Mario e Marco
vennero colpiti in pieno, mentre io mi salvai tuffandomi letteralmente
dentro i locali della sezione». E continua: «Mentre ero per terra sentii
sette od otto boati fortissimi, i colpi dei fucili, poi entrò Marco
massacrato di pallettoni, perdeva moltissimo sangue, tanto che un
poliziotto in borghese si sfilò la cintura per fermare l’emorragia alle
gambe. Io uscii, in stato di choc, vidi Mario per terra colpito al basso
ventre, mi chinai su di lui, gli presi la mano… ricordo solo, e lo
ricorderò per tutta la vita, che sorrideva e scuoteva la testa come per
dire “no, no”… Forse voleva rassicurarmi che stava bene, che non gli
avevano fatto niente, non saprei dirlo. Ricordo solo quel sorriso
dolce…». Lombardi fermò immediatamente una macchina che passava per fare
condurre i feriti all’ospedale. In capo a pochi minuti sul posto si
radunarono centinaia di missini, tra cui lo stesso segretario della
sezione Luigi D’Addio, forse il vero bersaglio dell’attentato, come è
stato scritto in questi anni, ma nessuno potrà mai dirlo. «Eravamo tutto
sconvolti», conclude. Dopo l’omicidio ci furono scontri, sia con la
vicina sezione del Pci sia con la polizia, e la tensione rimase
altissima per molti giorni nel quartiere.
Negli anni successivi la famiglia di Mario lottò con tutte le sue forze
per conoscere la verità, per avere giustizia, ma mai chiedendo vendetta
né odiando, nonostante le successive persecuzioni cui furono sottoposte
la madre, che perse il posto di lavoro, e le giovani sorelle, che
avevano 12 e 13 anni, che in seguito a questo dovettero addirittura
cambiare scuola. Ma a oggi non c’è ancora chiarezza su questo e su altri
omicidi politici, nonostanti numerosi appelli della mamma agli
esponenti delle Brigate Rosse affinché rivelassero una buona volta la
verità su quella stagione di sangue e di odio. Erano morti di serie B i
missini. Si sarebbero dovuti attendere 36 anni, ossia il 2011, prima che
un’amministrazione, quella del sindaco Alemanno, decidesse di dedicare
un giardino a Mario Zicchieri, al Pigneto, a meno di 200 metri da dove
fu ammazzato. «Mario – aggiunge il suo antico amico – andava in
palestra, era uno scout, frequentava la chiesa del Pigneto, si impegnava
per gli altri, aveva il senso della comunità…». Ma soprattutto aveva 16
anni.
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