di Mario M. Merlino (ereticamente.net)
Già
Ernst von Salomon, ne I Proscritti, aveva narrato con pagine di forte
impatto descrittivo l’ostilità del proletariato berlinese verso gli
uomini dei diversi movimenti nazionali, Corpi Franchi o dei vari
tentativi di colpo di stato. Con la Battaglia di Berlino Joseph Goebbels
ci fornisce privilegiata testimonianza di quei sette anni in cui,
giorno dopo giorno, si mosse e crebbe e vinse il Partito
Nazionalsocialista, conquistando prima la capitale, città refrattaria e
cosmopolita, e poi consegnando il potere al Fuehrer. Perché – e lo
scrive appunto lo stesso futuro ministro della propaganda – chi fa sua
la piazza dominerà il cuore stesso dello stato. E fu impresa epica anche
perché, nella metà degli anni ’20, esso era fenomeno tipicamente
bavarese. Qui era nato il Partito Operaio Tedesco e qui Hitler aveva
tentato, nel novembre del ’23, il putsch di Monaco. E fu proprio
Goebbels, superata la diffidenza e i contrasti con Hitler, che si
adoperò, tanto simile a un missionario al servizio dell’Idea, a imporre
il verbo nazionalsocialista al di fuori del bastione meridionale.
Dunque
un libro di memorie d’un tempo eroico con il partito ridotto nei ranghi
e diviso in interna contesa, sprezzante e ostile a farsi comandare da
uno sconosciuto capo la cui origine austriaca e il risiedere a Monaco
non giocavano a suo favore. (Tuttora oggi permane un certo disprezzo
verso i tedeschi del Sud, i bavaresi, con accenti e ironia che ricordano
tanto certe forme legate al costume intorno alla nostra ‘questione
meridionale’…). Quell’essere in pochi a volere, comunque e nonostante
tutto, andare oltre la miseria del
presente perché i grandi sogni si vivono ad occhi aperti (lo ricordava
Lawrence d’Arabia) e in strada (lo ricordava Céline), induce il dottor
Goebbels a dedicare il libro, questa sorta di diario appassionato ed
esaltante, ‘alla vecchia guardia berlinese’. Un doveroso omaggio perché
il sangue versato – furono in 170 i caduti della Rivoluzione – l’impegno
e il sacrificio quotidiano divengano lavacro purificatore e scuola di
formazione per le future giovani generazioni.
(Doverosa parentesi, io credo. Le rivoluzioni nazionali del XX secolo non si lasciano ingabbiare nella prigione ideologica dove, come scriveva uno dei tanti intellettuali vittime dell’illusione e inganno comunista, si finisce per identificare una sardina con un possente cavallo da corsa. E sarebbe interessante, aggiungo io inoltre, quanto proponeva Carlo Marx, ormai in rotta con la sinistra hegeliana, in quell’opera, intitolata proprio l’Ideologia Tedesca, abbandonata dopo il decreto di espulsione nei suoi confronti dal governo francese del Guizot alla vigilia del ’48 e venuta alla luce in un polveroso baule ai primi del ‘900 all’università di Monaco. Qui essa, cioè l’ideologia, viene espressamente definita quale ‘mistificazione della realtà’, ulteriore segno del divario tra il pensiero dell’ebreo di Treviri e dei suoi estimatori. Le rivoluzioni nazionali propongono delle testimonianze, degli esempi, la stele dei ‘camerati’ caduti in combattimento sotto il piombo comunista, come avvertiva Robert Brasillach durante uno dei suoi viaggi in Germania. La dottrina nasce solo attraverso l’azione, ‘in quantità di sacrificio ed amore’ e il Fascismo italiano, tramite lo squadrismo, fu anche in questo principio).
Vi
era un eroe della causa nazionale e di quella socialista: il capitano,
già combattente della Grande Guerra e poi dei Corpi Franchi in Alta
Slesia, Albert Leo Schlageter catturato e condannato a morte dai soldati
francesi al tempo dell’occupazione della Ruhr, il 26 maggio del 1923
nei pressi di Duesseldorf. Egli era stato elevato ad eroe e martire sia
dalle formazioni nazionaliste e sia dai comunisti (nella comune visione
della difesa del territorio nazionale e della lotta contro le potenze
del capitale tese a strozzare la Germania prostrata).
Ad
esso Goebbels seppe affiancare e farne mito principale della propaganda
dei sentimenti della visione eroica della vita ben spesa per l’idea
nazionalsocialista un giovane caduto proprio nella lotta per la
conquista di Berlino, Horst Wessel, di anni 19, militante delle SA. E il
suo nome diede il titolo a quel canto divenuto inno ufficiale dietro lo
sventolio delle bandiere il rullo dei tamburi il passo cadenzato di
uomini giovani e donne in marcia volti a far proprio il domani…
‘Die
Fahne hoch die Reihen fest geschlossen – SA marschiert mit ruhig festem
Schritt – Kam’raden die Rotfront und Reaktion erschossen – marschier’n
im Geist in unsern Reihen mit’. Horst
Wessel era nato nel 1907 a Bielefeld, piccola località nel cuore della
foresta di Tautoburgo dove si narra che Arminio avesse sterminato tre
legioni romane nell’anno 9 d.C., da padre pastore luterano e trasferito a
guidare la parrocchia di San Nicola a Berlino. Nel 1926 Horst, dopo
regolari studi scolastici, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza
Friedrich Wilhelm sul viale più famoso della capitale del Reich, l’Unter
den Linden.
Fin
da giovanissimo egli aveva aderito a formazioni nazionaliste e con
tanto ardore che la madre, timorosa per quel figlio sempre pronto a
buttarsi nella mischia, l’aveva inviato a studiare a Vienna. La morte
del fratello in un incidente di montagna lo riportò a Berlino e a
rinnovare il suo impegno politico. L’incontro con Goebbels lo porta a
divenire uno dei responsabili più attivi dei vari reparti d’assalto (
Sturmabteilung da cui SA) nella zona della centralissima Alexanderplatz,
luogo di vita frenetica ove prostitute e bordelli ne rappresentavano
bene il clima (più tardi la sinistra si sforzerà di gettare fango sulla
sua figura insinuando come egli fosse un protettore e la sua compagna
Erna come una puttana).
Fu
una cellula del Fronte Rosso che decise di punire la sua attività a
favore del Nazional-socialismo. La mattina del 14 gennaio 1930 un gruppo
di comunisti riuscì a farsi aprire la porta di casa e gli sparò contro
senza che egli avesse il tempo di mettersi in piedi e reagire,
colpendolo mortalmente alla mandibola. Trasportato in ospedale l’agonia
durò fino alle ore 6,30 del mattino del 23 febbraio.
Il
tempo la guerra la sconfitta la demonizzazione… a noi rimangono quei
versi, quel ritmo cadenzato e severo (nel pomeriggio di quel 12 dicembre
1969, mentre le bombe scoppiavano a Milano e Roma e si predisponevano
intrighi losche strategie infamia di quella stagione, ascoltavo Riccardo
suonare proprio la Horst Wessellied in un arrangiamento sincopato al
pianoforte…). E ci rimane l’invito a vedere quale nemico di sempre non
più tanto il fronte rosso, ormai in declino e ridotto in becero
antifascismo, ma quella reazione di cui la globalizzazione il potere
monetario e la bandiera a stelle e strisce ne impersonano l’imperio...
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