di Annalisa Terranova
Anche gli atei vogliono essere una chiesa. La proposizione contiene un
ossimoro, una contraddizione, ma è proprio così: l’Uaar, unione degli
atei e agnostici, intende aprire una trattativa per regolare i rapporti
tra la “confessione atea” e lo Stato italiano al pari delle altre
religioni.
Il Consiglio di Stato ha detto no, la Cassazione ha rinviato tutto al
Tar. Ne dà notizia oggi il Corriere spiegando che in questo intrigo di
carte bollate gli atei non intendono più limitarsi ad un’azione
corrosiva delle religioni sul piano culturale ma pretendono un’intesa
che ne metta nero su bianco diritti e doveri, tra i quali il diritto di
celebrare matrimoni e fare assistenza negli ospedali. L’articolo 8 della
Costituzione italiana parla però di “confessioni religiose”: com’è
possibile inserire gli atei in questa categoria visto che fanno della
scomparsa di ogni religione l’obiettivo della loro conventicola? E dopo
che dovremmo aspettarci, una trattativa tra lo Stato e la confessione
dei “vegani” o anche tra il governo e i seguaci del tantrismo? Il
dibattito, più che sull’ateismo, si concentra a questo punto sul termine
stesso,religione, che comporta la venerazione di un’entità che si
ritiene sacra. Ciò che è sacro, secondo Julien Ries, rimanda a ciò che è
“altro” dall’ordinario e dal profano. Tutto ciò che si esaurisce
nell’orizzonte limitato dell’uomo non ha attinenza dunque né con la
religione né con il sacro.
L’Uaar rivendica i suoi quattromila iscritti, un po’ pochi rispetto ai
dieci milioni di non credenti stimati nel nostro Paese. Hanno anche la
dea Ragione da venerare, una loro festa per rendere omaggio a Giordano
Bruno e possono ricevere il 5 per mille perché il ministero del Lavoro
li ha riconosciuti come associazione di promozione sociale. Lo scopo
degli atei è quello di importare anche in Italia il modello olandese e
belga, paesi in cui questo tipo di organizzazioni sono parificate alle
altre chiese e associazioni religiose. Un passo azzardato perché se,
come molti storici delle religioni hanno fatto notare a partire da
Mircea Eliade, il sacro è innanzitutto un’esperienza, una struttura
della coscienza, cercare di imbrigliarne le potenzialità con un reticolo
di norme giuridiche è un’azione destinata al fallimento, che può
portare solo a conseguenze negative sul piano della cultura e della
civiltà.
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