di Mario vattani per barbadillo.it
Dopo l’armistizio firmato a bordo della USS Missouri il 2 settembre del
1945, il comando delle forze di occupazione americane, che aveva fatto i
conti con gli ultimi mesi di disperata difesa giapponese da isola a
isola, da scoglio a scoglio, si accorse con meraviglia – e immaginiamo
con un certo sollievo – che non era stata organizzata nessuna resistenza
contro l’invasore, nessuna guerra a oltranza, nessuna “insurgency”.
Il Giappone aveva voltato pagina. La guerra era persa, e soprattutto era finita. Punto.
In Italia è stato molto diverso: la sconfitta completa della resistenza
alle forze di occupazione, degli “insorgenti” più o meno organizzati,
degli ex-combattenti ormai ultraottantenni e dei loro nipoti e pronipoti
– compresi i pronipoti associati per simpatia se non per storia
familiare – è avvenuta solo il 25 febbraio 2013.
Quel giorno si è compreso che l’elettorato, anche per motivi anagrafici,
aveva definitivamente perso interesse per ogni rivendicazione storica.
Non solo per ignoranza o disattenzione, semplicemente per la palese
inutilità del dibattito. Soprattutto però, l’elettorato aveva perso
interesse e fiducia in una comunità che umanamente o idealmente
proveniva direttamente dalla guerra civile ’43-45. Una comunità più che
un corpo politico, che lentamente si era andata assottigliando, e aveva
progressivamente perso – oppure rinunciato a – riferimenti, simboli,
idee, visione d’insieme. Voti.
Per carità, ci dicono sempre che le idee rimangono, ed è vero. Rimane
certamente anche la rivendicazione storica, e quella lasciamola ai
professionisti. Ma la forma-partito prevede la mobilitazione numerica, e
quella, lo abbiamo visto, non c’è. La mobilitazione numerica ha bisogno
di idee trainanti, e quelle che ci sono non trainano. A meno che
qualcuno non creda seriamente che, con una storia politica e culturale
come la nostra, si debba scendere nel fango e accapigliarsi su
matrimonio omosessuale o altri temi cosiddetti etici. Certo si può fare.
Potrei farlo anche io, ma prima dovrei ubriacarmi.
Intanto, in questo periodo di momentanea sospensione, mentre aleggia
ancora il pulviscolo di un mondo esploso,vediamo in tutta Italia, in
molti appuntamenti, quella comunità umana rincontrarsi, riparlarsi. Sono
appuntamenti quasi furtivi. Non se ne legge notizia, ma è per assenza
di interesse del pubblico. Incontri praticamente invisibili: senza
stampa, per mancanza di numeri, di peso politico, di novità.
Già perché nessuna colonna motorizzata di occupanti si è mai fermata per
un gruppo di reduci, stanchi e non più giovanissimi, riuniti in un
vecchio salone a discutere di come sono andate le cose. Naturalmente
parlo a titolo personale, ma di fronte a questo palcoscenico,
un’alternativa c’è.
Arrendersi. Dichiarare la resa. Aspettare il proprio turno, in silenzio,
sul ponte della USS Missouri. Perché c’è qualcosa di purificatorio
nella resa. Arrendersi significa ammettere una sconfitta pratica,
tecnica, numerica. E basta.
Attenzione: la resa non implica la rinuncia alle proprie idee. Anzi,
forse in quel modo le idee diventano addirittura più pure, sublimi.
Forse la resa è l’unico modo per proteggere il nucleo duro della propria
identità. Perché chi si arrende non rinuncia alla sua anima, e nemmeno
ai propri sogni. La regola è semplice: l’importante è arrendersi solo
quando si è perso veramente. Che non si pensi mai che si poteva ancora
resistere.
Poche immagini teatrali sono deprimenti quanto quella del vecchio
soldato stremato, che cerca lo scontro con un nemico che lo ignora.
L’idea della resistenza a oltranza la conosciamo. Ma conosciamo anche la
parola composta che unisce il tragico al comico. Molti italiani
sembrano apprezzare quella parola e quell’immagine, e la trovano
addirittura commovente. Per me invece è uno dei lati dell’Italia che non
riconosco e non apprezzo, nello stesso modo in cui non credo di aver
mai pronunciato l’esclamazione “mammamia” o detto “buono buono” col dito
infilato nella guancia.
Le idee rimangono, sono splendide, e vanno portate avanti con altri
mezzi, nella cultura, nell’arte. E’ lì che le regole sono completamente
diverse, è lì che le forze di occupazione del pensiero unico e del
“politically correct” sono più deboli, dove i cingoli dell’omologazione
scivolano perché trovano la vera, lucida, libertà. E’ lì che le
commissioni di epurazione inciampano da sole nel loro stesso
vocabolario. E’ lì che si sposta il conflitto. Lì c’è ancora un
arsenale. Lì si riparte da capo.
“Ci rivediamo alla prossima”.
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