di Antonella Ambrosioni (Secolo d'Italia)
Si è spenta a Bergamo Maria Pasquinelli. Un nome che ai più giovani dirà poco ma che oggi piangono in molti, tutti i profughi di Istria e Dalmazia e i triestini che conoscono bene la sua storia. Un nome che tutti gli italiani dovrebbero portare nel cuore per la sua dedizione alla causa nazionale, simbolo di tutta la sofferenza, l’amarezza, la rabbia degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Maria Pasquinelli era un’insegnante di Pedagogia originaria della Toscana, già crocerossina in Cirenaica, poi rimpatriata per insegnare a Spalato. Il 10 febbraio del 1947, data infausta della firma del Trattato di Pace, uccise con tre colpi di pistola il comandante della guarnigione britannica di Pola, generale Robert W. De Winton, durante la cerimonia di passaggio dei poteri sul capoluogo istriano alle autorità jugoslave. Immediatamente fermata e condotta al comando, in tasca le venne trovato il seguente bigliettino-confessione: «Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio».
Processata davanti alla Corte Militare Alleata di Trieste, la Pasquinelli si dichiarò colpevole e spiegò le ragioni che l’avevano indotta a compiere l’attentato. Il dibattito si svolse senza tumulti né colpi di scena. Il 10 aprile la Corte alleata pronunciava la sentenza di condanna a morte, All’invito della Corte rivolto alla Pasquinelli e al suo avvocato di appellarsi entro trenta giorni la Pasquinelli rispose: «Ringrazio la Corte per le cortesie usatemi, ma fin d’ora dichiaro che mai firmerò la domanda di grazia agli oppressori della mia terra». In numerose città italiane vi furono proteste e raccolte firme, per iniziativa soprattutto della mobilitazione dei giovani del Msi, richiedendo la commutazione della pena. Il 21 maggio 1947, la pena capitale fu infatti commutata in ergastolo e Maria fu trasferita nel penitenziario di Perugia. Nel 1965 tornò in libertà. I polesani dell’Unione degli Istriani furono gli ultimi ad incontrarla lo scorso marzo, quando in occasione del suo centesimo compleanno le regalarono un mazzo di fiori. La sua figura di fedele italiana venne presto dimenticata e il suo gesto venne liquidato come un rigurgito fascista. Ma i cittadini del nostro confine orientale, gli esuli hanno continuato a vedere in lei un esempio di «coerenza assoluta», come spiega il presidente dell’Unione istriani Massimiliano Lacota.
Si è spenta a Bergamo Maria Pasquinelli. Un nome che ai più giovani dirà poco ma che oggi piangono in molti, tutti i profughi di Istria e Dalmazia e i triestini che conoscono bene la sua storia. Un nome che tutti gli italiani dovrebbero portare nel cuore per la sua dedizione alla causa nazionale, simbolo di tutta la sofferenza, l’amarezza, la rabbia degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Maria Pasquinelli era un’insegnante di Pedagogia originaria della Toscana, già crocerossina in Cirenaica, poi rimpatriata per insegnare a Spalato. Il 10 febbraio del 1947, data infausta della firma del Trattato di Pace, uccise con tre colpi di pistola il comandante della guarnigione britannica di Pola, generale Robert W. De Winton, durante la cerimonia di passaggio dei poteri sul capoluogo istriano alle autorità jugoslave. Immediatamente fermata e condotta al comando, in tasca le venne trovato il seguente bigliettino-confessione: «Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio».
Processata davanti alla Corte Militare Alleata di Trieste, la Pasquinelli si dichiarò colpevole e spiegò le ragioni che l’avevano indotta a compiere l’attentato. Il dibattito si svolse senza tumulti né colpi di scena. Il 10 aprile la Corte alleata pronunciava la sentenza di condanna a morte, All’invito della Corte rivolto alla Pasquinelli e al suo avvocato di appellarsi entro trenta giorni la Pasquinelli rispose: «Ringrazio la Corte per le cortesie usatemi, ma fin d’ora dichiaro che mai firmerò la domanda di grazia agli oppressori della mia terra». In numerose città italiane vi furono proteste e raccolte firme, per iniziativa soprattutto della mobilitazione dei giovani del Msi, richiedendo la commutazione della pena. Il 21 maggio 1947, la pena capitale fu infatti commutata in ergastolo e Maria fu trasferita nel penitenziario di Perugia. Nel 1965 tornò in libertà. I polesani dell’Unione degli Istriani furono gli ultimi ad incontrarla lo scorso marzo, quando in occasione del suo centesimo compleanno le regalarono un mazzo di fiori. La sua figura di fedele italiana venne presto dimenticata e il suo gesto venne liquidato come un rigurgito fascista. Ma i cittadini del nostro confine orientale, gli esuli hanno continuato a vedere in lei un esempio di «coerenza assoluta», come spiega il presidente dell’Unione istriani Massimiliano Lacota.
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