venerdì 29 novembre 2013

Sabato in piazza la Rete No Muos: “Vogliamo essere liberi sovrani e apartitici”...


di Geza Kertezs (barbadillo.it)
No Muos contro No Muos? A quanto pare sì, dato che il“Movimento No Muos” ha organizzato dei presidi contro la manifestazione apartitica indetta sabato pomeriggio a Palermo dalla “Rete No Muos”. Una decisione che ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica come si può leggere nei numerosi forum sul web, dove in tanti stigmatizzano l’idea della contromanifestazione su un tema – l’opposizione all’installazione dei sistema radar Usa – considerato patrimonio di tutti i siciliani.
 
Ma andiamo con ordine. «Dietro la decisione di porre un muro tra le diverse sensibilità di chi si oppone all’installazione delle mega antenne militari sul territorio di Niscemi, c’è la volontà, assolutamente non celata da parte del “Movimento No Muos” (connotato ormai a sinistra, ndr), di capitalizzare le voci di una protesta che dovrebbe avere per la sua natura territoriale “un valore assolutamente trasversale e unitario”. Così gli organizzatori della “Rete No Muos” rispondono a chi invita ad opporsi alla manifestazione organizzata per sabato a Palermo. Un tentativo monopolizzante confermato nel testo dell’invito a contro-manifestare lanciato su Facebook dal Movimento. Si legge infatti: «Nel rispetto della nostra storia e del nostro percorso politico, pretendiamo quindi che nel corteo non siano utilizzati i nostri simboli e le nostre bandiere. Invitiamo la stampa – viene puntualizzato – a non utilizzare immagini di repertorio delle manifestazioni NO MUOS per pubblicizzare l’evento del 30».
 
Ed è appunto il rischio di strumentalizzazioni politiche che ha portato le sigle aderenti alla “Rete No Muos” a indire una manifestazione in cui la presenza di vessilli partitici è assolutamente bandita. Un’opzione che, stando a quanto riferiscono gli organizzatori del corteo di sabato, è maturata dopo la scarsa partecipazione popolare della manifestazione indetta a Palermo il 28 settembre. Evento, nel quale, l’eccessiva a presenza di bandiere chiaramente connotate, è stata ritenuta imbarazzante dagli stessi abitanti di Niscemi.
 
Spiega infatti Stefano Di Domenico, portavoce della Rete No Muos: «Quello di sabato sarà un corteo pacifico e gioioso, senza l’esposizione di bandiere politiche, partitiche o sindacali. Questo sarà proprio il tratto distintivo rispetto ad altre manifestazioni contro il Muos, degli scorsi mesi, che hanno portato alla strumentalizzazione politica del movimento ed al progressivo allontanamento di tanti cittadini».
 
«Nonostante la mancanza di fondi – fa sapere Di Domenico – tanti cittadini si stanno organizzando da molte città siciliane con carovane di auto per raggiungere Palermo. Sono, inoltre, in corso da giorni assemblee all’interno delle scuole palermitane in stato di agitazione sul tema del Muos in vista del corteo di sabato. Ne sono certo – sottolinea – sarà un momento di pura gioia».
“Liberi e Sovrani” è dunque il motto che la Rete No Muos ha scelto come filo conduttore dell’evento. Una dicitura netta chiamata a sottolineare come la battaglia contro il Muos di Niscemi sia, in primo luogo, una battaglia per la libertà e la sovranità di una terra che – spiega il portavoce – «per troppi anni si è piegata alle volontà degli Usa, accettata supinamente dalle istituzioni nazionali e regionali».
 
Il nodo delle contromanifestazioni non turba affatto i preparativi dell’evento indetto per sabato: «Chi in queste ore invita i cittadini a non partecipare al corteo – spiega ancora il portavoce della “Rete No Muos” – non fa altro che dividere il fronte No Muos facendo soltanto il gioco di Crocetta e degli Usa. Il corteo di sabato sarà il punto di partenza per la costruzione di un movimento, finalmente trasversale e libero da qualsiasi ideologia escludente, che sappia coinvolgere i siciliani in una lotta che ancora non è persa ma che anzi è ancora tutta da giocare».

giovedì 28 novembre 2013

Il pensiero di Leopardi? Uno Zibaldone di verità...



di Marcello Veneziani (IL Giornale)

Nessun altro autore ha saputo riflettere così profondamente sulla condizione umana. E nessun pensatore che seguì, da Schopenhauer a Nietzsche, superò il suo punto di arrivo...

Come sarà accolto Leopardi in versione anglo-americana? È sbarcato in doppia edizione, britannica e statunitense, con la traduzione del suo ciclopico Zibaldone. Arriva in America dall'estrema, profondissima Europa come un Corpo Estraneo, un relitto mediterraneo naufragato nell'Atlantico, un alieno del pensiero tragico che sbarca senza permesso di soggiorno nelle terre del pragmatismo e dell'ottimismo.

Nessun autore ha saputo guardare in faccia la verità della vita e del mondo come Leopardi. Ci sono più grandi filosofi, grandi scienziati e forse poeti più grandi, ma nessuno ha svelato la condizione umana con la sua implacabile e acutissima lucidità, senza concedere ripari. La sua opera è la più alta rivelazione della condizione umana; oltre c'è solo la Rivelazione divina. Il pensiero che s'inoltrò sulla sua strada e affrontò i suoi temi - Schopenhauer, Nietzsche, l'esistenzialismo - non superò il suo punto d'arrivo, se non mediante il salto nella fede. La sua visione della vita e del mondo esclude che anche il dolore, come la gioia, possa essere un pregiudizio soggettivo che altera la sostanza pura della vita, il suo gioco cosmico al di là del bene e del male; a noi tocca solo scommettere che sia solo caso nel caos o destino che si collega a un ordine. Leopardi si ferma alla disperazione che precede la scommessa e degrada la scommessa a illusione. E tuttavia Leopardi è il poeta e il pensatore più religioso della modernità. Religioso non vuol dire credente né devoto. La sua è una visione radicale e universale sulla vita in rapporto alla morte e al dolore. Leopardi resta religioso anche nella disperazione: il desiderio ardente di morire che accompagnò sempre la sua breve vita non lo indusse al suicidio.

Corteggiò la morte per anni, la invocò tante volte, ma non si lasciò mai conquistare dall'idea di togliersi la vita. Perché, spiegò nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, suicidandosi «tutto l'ordine delle cose saria sovvertito». La certezza che tutto sia connesso in un ordito, è l'essenza propria della religio e l'idea che infrangere quell'ordine sia il supremo sacrilegio è quanto di più religioso si possa pensare. Che poi dietro la Trama del cosmo, dietro l'ordine di tutte le cose, ci sia un Autore o un'Intelligenza e che dopo la morte vi sia la resurrezione, questo riguarda la fede, non il pensiero di Leopardi. In lui lo scacco della Fede non segna il trionfo della Ragione, perché il naufragio riguarda ambedue: da qui il suo pensiero tragico, divergente dai Lumi e da ogni storicismo, progressismo o razionalismo. E da qui la sua ultrafilosofia, che al sistema filosofico preferisce il canto, la poesia, lo zibaldone di pensieri sparsi. Perché è rivolta alla vita e al mondo, non alla pura teoria. Oltre che religioso, il pensiero di Leopardi ha una relazione intensa con l'amor patrio. Sono tante le pagine leopardiane contro il paese natio, contro l'Italia e gli italiani cinici e ridenti, privi di costumi; tutto il pensiero leopardiano e la linea che poi ne discese condannò la retorica patriottarda e le sue pompose finzioni. Ma è come se volesse rendere l'amor patrio più vero ed essenziale, antiretorico, privo di fanfare, raccolto nella gloria dei «nostri padri antichi» e nel rimpianto di tanta altezza caduta «in così basso loco». Risuona l'amore per l'Italia nei suoi versi e affiora una concezione eroica della vita, che si esprime nel culto dei vinti.

Anche il Leopardi in fuga dalla casa paterna, dalla famiglia e dai suoi precetti, dedica poesie, lettere e pagine di un amore intenso e raro al suo Carissimo Signor Padre che poi diventa Mio Caro Papà, a sua sorella Paolina, a suo fratello Carlo. Un amore tenerissimo verso la famiglia, non privo di asprezze e rigetti, ma autentico. La famiglia resta l'alveo affettivo leopardiano, la sua solitudine non può essere concepita se non in rapporto alla sua famiglia. Al di sopra dell'amore per la famiglia, per la patria e per la religio, non c'è che l'amore disperato per la verità. Se deve scegliere tra Dio e il Vero, tra la Famiglia e il Vero, tra l'Italia e il Vero, Leopardi sceglie senza indugi il Vero. Sul piano storico Leopardi colse l'importanza dei pregiudizi e delle illusioni, detestò la politica giacché gli individui «sono infelici sotto ogni forma di governo». Sul piano etico Leopardi lodò la nobiltà dell'inutile, la gloria delle imprese vane. Sul piano estetico riconobbe commosso il primato della bellezza ma sul piano umano contraddisse l'ideale classico del bello e buono, notando che la bellezza insuperbisce chi la possiede mentre la bruttezza incammina verso la virtù. Il pensiero negativo di Leopardi ha un approdo finale: è l'Oriente, inteso come il luogo simbolico in cui si dissipa ogni illusione legata all'individuo per rifluire e disciogliersi nel grembo assoluto della Natura. Oblio immoto del mondo «e già mi par che sciolte/ giaccian le membra mie, né spirto o senso/ più le commuova, e lor quiete antica/ co' silenzi del loco si confonda» (La vita solitaria). La tragedia del vivere per Leopardi risiede nell'individualità che separa dal tutto; viceversa la salvezza, o almeno la pace, è rientrarvi sciogliendosi nel tutto, estinguere la vita individuale nell'oceano dell'essere. «E il naufragar m'è dolce in questo mare»... Prima di poetare sulla vita e sulla morte, Leopardi adolescente le affrontò sul piano della filosofia; prima d'illuminarsi di luna e d'infinito, studiò gli astri e il cosmo.

Versi che sembrano sgorgati da stati d'animo provengono da lontano, da studi precoci e pensieri sofferti. Stringe il cuore leggere i tanti passi in cui Leopardi confessa il suo disagio di essere al mondo e di sentirsi rifiutato. Ma se non fosse stato gobbo, brutto, respinto da Silvia e irriso dalla gente, se avesse avuto una vita e un corpo come gli altri, avrebbe mai raggiunto quelle altezze e quelle profondità? Su quali sentieri lo avrebbe dirottato la vita? Non dobbiamo, con la morte nel cuore, benedire crudelmente l'amore negato, il corpo deforme, per i doni sublimi che provocarono? Del resto lui stesso era consapevole del nesso tra bruttezza e grandezza e si dispose a barattare la vita con la gloria: «Voglio essere infelice piuttosto che piccolo e soffrire piuttosto che annoiarmi». «Il ritratto è bruttissimo: nondimeno fatelo girare costì, acciocché i Recanatesi vedano cogli occhi del corpo (che sono i soli che hanno) che il gobbo de Leopardi è contato per qualche cosa nel mondo». Ma pure alla gioia Leopardi aspirò invano: «Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita; il mondo non mi par fatto per me». Inadeguato al mondo, senza di consolanti vie di scampo, Leopardi mise a nudo la verità della vita. Benché solitario, resta il più fraterno tra i poeti e pensatori. Nei secoli fratello. E ora Brother James.

mercoledì 27 novembre 2013

Teo Mammucari scherza su piazzale Loreto. Ed è rivolta sul web...

di Annamaria Gravino (Secolo d'Italia)

Irriverenti, va bene. Ma fino a che punto ci si può spingere per cercare la battuta facile? Un esempio lo ha fornito la puntata di ieri de Le Iene, durante la quale Teo Mammucari, parlando di calendari, ha detto che quello di Mussolini è l’unico che si può mettere a testa in giù. Il riferimento a piazzale Loreto in un contesto cabarettistico ha provocato una dura reazione sul web e in particolare sulla pagina facebook del programma e sul profilo twitter di Mammucari. Per avere un’idea di ciò che si è scatenato basti dire che in poche ore i commenti al post della puntata sono arrivati quasi a quota 400. Si va dagli insulti all’augurio per il conduttore di ritrovasi lui a testa in giù, ma si passa anche per la frequente, amara constatazione sullo «squallore» di quella battuta. E se c’è chi si complimenta per la trovata, molti sottolineano il fatto che ci vorrebbe più rispetto per i morti e per la storia d’Italia. Certo è che la battuta di Mammucari, che poi vuol dire la battuta degli autori del programma, dimostra se non altro una rara superficialità, una incapacità di elaborare che forse è peggio e più preoccupante perfino di certe manifestazioni di quell’antifascismo militante per cui la morte, se è di un fascista, non solo non merita rispetto, ma va accolta con favore, possibilmente anche con dileggio. Non sembra sia questo il caso.
Le Iene non sono un programma militante, sono un programma mainstream, che come tale ha spesso la tendenza alla banalizzazione o alla facile provocazione. Ma di facile, nella faccenda di piazzale Loreto, non c’è proprio nulla. Quell’episodio, non a caso ancora dibattutissimo e soggetto a interpretazioni e revisioni anche a sinistra, rimanda a temi complicatissimi: sul piano strettamente italiano, per esempio, dalla riflessione sulla storia del secolo scorso alle radici della nostra democrazia; su un piano più universale, dalla sorte che spesso tocca al corpo del nemico, tanto più se è stato il capo, all’anima bestiale che muove le folle nel momento della sconfitta di un regime. La sorte dei corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci è storia di oggi molto più di quanto si pensi. Intanto perché non è stata storicizzata, è qualcosa di cui ancora non si sono capiti fino in fondo portata e significato. Poi perché, ancora oggi, è diffusa l’idea che del corpo del nemico si possa fare scempio impunemente. Che anzi, forse, si debba fare scempio come atto liberatorio, come affermazione di forza, come negazione di una umanità che tanto più va svilita quanto più ha rappresentato il proprio specchio. Gli italiani che amarono e seguirono Mussolini furono pronti a sputare sul suo corpo o per lo meno ad accettare che questo avvenisse né più né meno di quanto gli iracheni, appena ieri, hanno fatto con Saddam Hussein. Da qualunque prospettiva si voglia guardare – umana, civile, politica, storica – in questo c’è qualcosa di profondamente tragico e smisurato, che dovrebbe rendere inaccettabile per chiunque l’idea di farne battute da share.


martedì 26 novembre 2013

Giovane precario oggi? Povero anziano domani...

povertà 
tratto da Barbadillo.it

Precario oggi? Povero (e senza pensione) domani. Lo ha spiegato l’Ocse che ha indicato come in Italia, «l’adeguatezza dei redditi pensionistici potrà essere un problema» per le generazioni future. Riguarderà tutti? No. Sono «i lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti quelli più vulnerabili al rischio di povertà durante la vecchiaia».


Sotto accusa dell’organismo internazionale il “metodo contributivo” e l’assenza di pensioni sociali. Questo perché – è chiaro – senza regolarità nei contratti di assunzione e con un sommerso che dilaga in mancanza di una detassazione sul lavoro il rischio concreto è che un’intera generazione non solo non arrivi ad ottenere la pensione ma che il rischio indigenza in vecchiaia sia direttamente proporzionale al tasso di precariato “giovanile”.
La riforma delle pensioni attuata dal governo tecnico con il ministro Fornero – già bocciata per il caos esodati – non basta. «Le politiche per promuovere l’occupazione e l’occupabilità e per migliorare la capacità degli individui ad avere carriere più lunghe sono essenziali», ha sottolineato l’organizzazione, ricordando che «l’aumento dell’età pensionabile non è sufficiente per garantire che le persone rimangano sul mercato del lavoro».

lunedì 25 novembre 2013

È morto a Torino il filosofo “irregolare” Costanzo Preve: da Marx alla critica all’euro...

 
 
di Valerio Goletti (Secolo d'Italia)

 È morto a Torino il filosofo Costanzo Preve. Era nato a Valenza (Alessandria) nel 1943, aveva settant’anni ed era ormai malato da più di un anno. Date le sue origini – la madre era armeno ortodossa – ha chiesto di essere sepolto con il rito greco-ortodosso. Una decisione che solo in apparenza contraddice la sua professione di ateismo: infatti Preve, marxista irregolare isolato e criticato dalla sinistra, lontano dalla politica dai primi anni Novanta dopo un intenso periodo di militanza, apprezzato e studiato oggi dagli ambienti della destra antiglobalista, aveva compiuto in piena libertà un percorso che l’aveva trasformato in profondità anche sul piano spirituale. Nella prefazione al carteggio con Luigi Tedeschi, in uscita a breve per Area 51, Stefano Sissa scrive che il suo obiettivo era quello di contrastare sia l’odierno capitalismo sia il nichilismo divorante che contraddistingue la nostra epoca. Non stupisce perciò ritrovare un pensatore come Preve tra quanti hanno difeso Ratzinger dall’attacco dei salotti laicisti. In proposito scriveva che il relativismo «piace solo agli intellettuali sradicati, ma essi sono meno del 3% della popolazione globale. Il rimanente 97% è angosciato dalla morte di Dio, e dal fatto che essa viene sostituita dal circo mediatico, dalla simulazione televisiva, dall’incontinenza pubblicitaria, dalle mode pilotate e dallo spettacolo porno. Ridotta l’intera filosofia a smascheramento delle illusioni metafisiche (…) effettivamente la religione torna ad essere il deposito del senso complessivo delle cose».

Era aperto al dialogo con tutti, e soprattutto – per quell’attitudine curiosa che caratterizza sempre i veri studiosi – con gli ambienti a lui lontani: di qui il confronto con un intellettuale come Alain de Benoist (il cui frutto è stato il libro del 2006 Il paradosso Alain de Benoist, Settimo Sigillo) e di qui anche l’accusa di “rossobrunismo” lanciatagli dai “compagni” che lo hanno visto pian piano distanziarsi dal materialismo dialettico di Marx. Preve era studioso non solo di Marx ma anche della filosofia della Grecia classica, di Spinoza, di Fichte, di Hegel e di Lukács.

Il percorso seguito da Preve – spiega Edoardo Zarelli, altro intellettuale anticonformista convinto, come Preve, che destra e sinistra siano categorie da superare – parte da Marx e giunge al comunitarismo, contesto fondativo di un nuovo umanesimo. Libero dall’osservanza dei dogmi delle varie chiese ideologiche, Preve riteneva che non ci fosse più bisogno dell’antifascismo (criticava il fanatismo di chi considera il fascismo una sostanza ontologica “diabolica”) e si è sempre sottratto al gioco degli opposti estremismi, collaborando con tutti coloro che gli offrivano spazio per diffondere le sue idee sulla geopolitica, sulla filosofia, sulla metapolitica. Un cammino che lo ha portato ad essere vicino al pensiero euroasiatista e a criticare l’euro predicando la necessità di recuperare le sovranità nazionali. La sua libera ricerca, trasversale e priva di pregiudizi, gli ha procurato l’ostilità dell’ambiente di provenienza. L’impossibilità di definirlo, infine, ha fatto sì che venisse ignorato dal mainstream mediatico. L’ultimo suo libro – ne ha scritti oltre quaranta – è Una nuova storia alternativa della filosofia (Petit Plaisance, Pistoia) al cui centro c’è l’uomo come “animale politico” la cui identità va ricostruita per superare l’alienazione economicista.

sabato 23 novembre 2013

Tra Capitan Harlock e tricolori il nuovo movimentismo studentesco identitario...



di Mauro La Mantia (barbadillo.it)

Alla notizia di una nuova mobilitazione studentesca nazionale, indetta per oggi, in molti si aspettavano le solite manifestazioni nelle città italiane egemonizzate dai centri sociali: bandiere rosse, vecchi cori sessantottini riadattai, prime file di studenti con i caschi, scontri con la polizia. E le ormai immancabili maschere di V per Vendetta, con il povero Guy Fawkes (ribelle e martire cattolico) arruolato a sua insaputa dagli antagonisti di sinistra.
Invece oggi è successo qualcosa di inaspettato. Migliaia di studenti in tutta Italia hanno aderito all’appello lanciato da “Rotta di Collisione”, il nuovo coordinamento slegato da partiti e sindacati che riunisce le sigle studentesche identitarie. Appello che invitava gli studenti a ribellarsi contro le politiche d’austerità del Governo Letta, sottomesso come quello Monti ai diktat europei, che colpiscono in primis la cultura e la formazione quindi il futuro delle giovani generazioni.
Una rivolta generazionale ancorata però ai principi identitari, alla difesa della sovranità nazionale e della comunità. Per questo gli studenti scesi in piazza a Roma, Palermo, Torino ed altre città hanno sventolato soltanto i tricolori, unica bandiera in grado di unire gli studenti, oltre le appartenenze politiche e geografiche, e rappresentare questi valori. E per sfidare lo strapotere delle lobby bancarie, che impongono ai governi queste folli politiche economiche e sociali, gli studenti hanno scelto di indossare le maschere di Capitan Harlock il pirata ribelle, tornato in auge per l’atteso film di gennaio, che sfida l’apatia e l’indifferenza della gente lottando da solo contro chi vuole saccheggiare il pianeta Terra. Manifestazioni intransigenti nei contenutiche però non sono sfociate nei soliti scontri troppe volte visti nelle piazze, nocivi per l’intero movimento studentesco.
La mobilitazione di oggi (“Le scuole crollano, gli studenti no”) è stata anche incentrata sulla irrisolta questione dell’edilizia scolastica. Attraverso l’hashtag #lescuolecrollano, gli studenti di “Rotta di Collisione” hanno denunciato nei giorni scorsi lo stato di degrado delle scuole italiane, da nord a sud. Da qui la richiesta al Governo di ammodernamento e messa in sicurezza degli edifici scolastici. Tra le rivendicazioni anche l’aumento del numero dei rappresentanti di istituto, la lotta al caro-libri, la riforma della classe docente ed in generale maggiori investimenti sulla scuola.
A Roma il Ministero dell’Istruzione di Viale Trastevere è stato assediato pacificamente da oltre mille studenti, a Torino un gran corteo ha attraversato le vie della città sfidando la neve e la contromanifestazione dei centri sociali, a Palermo oltre cinquemila studenti hanno letteralmente invaso il centro della città con blitz e flash mob davanti i palazzi delle istituzioni. E in altre città si sono svolti sit-in, assemblee e volantinaggi. «Rappresentiamo una generazione stufa di combattere contro i mulini a vento. Sappiamo chi sono i nemici dell’Italia e siamo pronti a smascherarli» dicono gli studenti di “Rotta di Collisione”. Sembra quindi essere rinato in Italia un movimentismo studentesco identitario e non omologato. Non si vedeva da anni.

venerdì 22 novembre 2013

Sardegna e solidarietà: non di sola crisi vive la dignità del nostro popolo...


  di Emanuele Ricucci (tratto da Barbadillo.it)

Così ti trovi a scrivere. Da inerme spettatore. Sai che l’unico gesto utile è la solidarietà che nasce nel profondo delle corde dell’anima. Sai, in ogni caso, che essa non può bastare. Partecipai come soccorritore a L’Aquila. Ad oggi la vita mi impedisce di farlo in Sardegna. Nella profondità dei miei pensieri capisco che questo si, sarebbe stato utile. Mi trovo a scrivere. Tristissimo. Ferito dentro. Si, nel 2013, mi sento abbattuto da italiano. Non ho legami con la Sardegna, ne personali ne d’amicizia, se non quello di fratellanza che sorge dall’appartenenza allo stesso popolo; una connessione ideale, a questo punto riscopertasi profonda, con un popolo che ha la pelle dura. Le fiamme d’estate. L’acqua in inverno. Incendi ed alluvioni. Questa volta potente. Troppo. Che serve il mio paese facendo giurare fedeltà ad una Repubblica che, ad oggi, disconosce, dimentica i suoi figli, ai migliori ragazzi della sua terra, così controversamente unita al senso d’Italia, al grido di “Avanti Forza Paris”. Avanti, tutti insieme.
Così mi piace identificare il popolo sardo. Così mi piace vivere quel senso di coesione marmorea che inquadra gli italiani. Così L’Aquila, l’Irpinia, L’Umbria. Così i montanti, lenti e pesanti, assestati dalla storia e dalla natura ai fianchi della nostra terra. Così, oggi. Olbia. La Sardegna.
Questo siamo. Rughe in volto. Instabili come molecole spinta da energia. Ma forti fratelli che rispondono agli squilli di tromba. Alle urla. In Italia, la cavalleria alleata arriva sempre. Poi le lamentele, gli scandali, la corruzione. Le risate e gli affari. Le poltrone e la mancata organizzazione. La speculazione e l’ipocrisia. Ma quando la terra trema, in quel secondo. Quando l’acqua scorre, vomitando fango. La forza del mio popolo esce prorompente. La stessa che compone un’identità impercettibile ma reale. La stessa dei nostri nonni nel ricostruire la loro dignità e le mura di un paese di collina dopo la pioggia di bombe.
Mi rivolgo alle istituzioni. Quelle. Non scappate. Non vi nascondiate. Siete tutori e rappresentanti del nostro popolo. Sempre. Anche quando vi è dura o scomodo pensarlo. Anche ora sia rabbia e sdegno, per voi. Anche ora si invochino i migliori principi della moderna democrazia. Anche ora si vada incontro ai tempi che cambiano. Anche ora sia Lutto nazionale. Dignità nazionale. Legame nazionale. Fratellanza Nazionale.
Forza Sardegna. Non c’è montagna che non sappiate scalare. “Avanti Forza Paris”.

Firmato Un fiero italiano

giovedì 21 novembre 2013

A 93 anni si cerca (con l’aiuto del figlio) e si trova su Youtube in un filmato del 1942: partiva per la guerra…


di Desiree Ragazzi (Secolo d'Italia)
La meraviglia di scoprire a 93 anni YouTube e l’emozione di ritrovarsi in un filmato di guerra del ’42. È una bella storia familiare quella che ci racconta Fausto Brambilla dalle pagine del Corriere della Sera. Narra dell’incontro di due mondi: uno proiettato al futuro e l’altro ripiegato alla memoria. 
Quello di YouTube nato solo otto anni fa che insegue miliardi di click e quello di un anziano signore, suo padre, “confinato” da quando le forze l’hanno abbandonato nello spazio di casa, che vive tra quotidiano e passato. E guarda caso lo strumento che lo aiuta a riappropriarsi di alcuni scampoli di vita trascorsa è un tablet piccolo e luminoso. «Papà, quello, questo è un piccolo computer», «Ma dai? – dice lui – Quella roba lì piccola e piatta un computer?», «Sì, basta scrivere il nome di quello che vuoi cercare e lui lo trova». E così inizia un gioco che lo porterà tra una curiosità e un’altra a scoprire un video anonimo del ’42 di soldati in partenza dalla caserma di Novara. 
La ricerca inizia su Google. «Scrivi campagna di Russia», dice Francesco Brambilla a suo figlio. Ed ecco paginate intere e migliaia di siti. Ne viene scelto uno: tanti volti e tanti nomi. Poi un’altra ricerca, anche questa fortunata. Ci sono nomi, date di nascita, ricordi che riprendono forma e sostanza. «Sono l’unico a essere tornato vivo del mio paese», Bellinzago Lombardo  un paesino della campagna milanese. «Non ho mai sparato un colpo – dice – non ho mai pensato di poter uccider un uomo». Poi un’altra richiesta: «Prova con Sforzesca, la mia divisione». La data è 1942. Dopo alcuni giri e la visione di alcuni filmati, ecco arriva quello giusto. L’inquadratura mostra la scritta “Caserma Passalacqua”.  È l’inizio di un viaggio che lo porterà a settant’anni prima. «È la mia – dice l’anziano signore al figlio – Quella di Novara, sono partito da lì, riconosco il cortile, era tutto circondato da alberi». Le immagini scorrono, poi una carrellata di soldati seduti. 
E poi la gioia esplode al minuto 1 e 35″. «Papà ma quello sei tu», dice il figlio. «Io? Dove?», «Sì, eri tu, sei uguale a quelle foro che mi hai fatto vedere tante volte». Torna indietro, rivede le immagini scorrere. E poi la conferma del papà: «Sì, sono io».  E ancora una carrellata di immagini, con il cursore che va avanti e indietro. L’emozione è tanta. «Ho visto qualcosa  – confessa l’anziano signore – che non mi uscirà più dalla mente». E poi la considerazione finale di Fausto Brambilla: «Settant’anni dopo. In mezzo la vita normale di un uomo comune: Francesco Bra mbilla, da sempre per tutti Mario, classe 1920, caporal maggiore del 54° Reggimento Fanteria. Un uomo normale con una storia speciale, che grazie a YouTube vivrà nel futuro». 
E nella memoria di tutti noi. Grazie Fausto per averlo condiviso con tutti noi. Per una volta dalle pagine di un quotidiano si legge una storia che sa di famiglia e di buoni sentimenti.
http://www.youtube.com/watch?v=RlAPIA4FSKQ

mercoledì 20 novembre 2013

Chatwin, il viaggiatore inquieto...


di Marcello Veneziani

Il grande autore nomade è una presenza che si sparge ovunque nel mondo. Ma per lui "il ritorno offre una pienezza di senso che l'andata da sola non ha"...

Bruce Chatwin non è uno scrittore ma uno stato d'animo che si è fatto zaino di cuoio, piedi, occhi e visione del mondo. Il fascino di Chatwin eccede quello dei suoi stessi libri, il suo mito scavalca le sue opere. Chatwin è forse l'unico autore che si lascia amare non per i libri ma per il candore avventuroso dei suoi sguardi alla vita, alla terra, ai popoli; e per i suoi passi verso l'originario, per il caldo e il freddo che avvertiamo con lui, per la passione del sole, del sud e del lontano, il suo «rinomato sguardo azzurro acido» come egli stesso scriveva. Ma concorrono al mito anche la sua morte precoce, le leggende e le dicerie, l'icona del suo volto come quello di un Che Guevara biondo che non sogna la rivoluzione ma cerca, in solitudine, l'essenza divina nella vita errante.

Chatwin è diventato metafora dell'irrequietezza e allusione a una vita ubiqua. Chatwin è la Patagonia, l'India e l'Australia, ma anche il Mediterraneo e la Grecia. Nei titoli delle sue opere, anche postumi, c'è già il suo mito e il suo programma di vita: Le vie dei canti, Anatomia dell'irrequietezza, Che ci faccio qui? che è diventato il blasone dell'erranza ma la sua origine - oltre Rimbaud - è in una battuta di De Gaulle a Churchill durante il suo esilio a Londra che Chatwin cita. La vita e le opere di Chatwin sono disseminate nel paesaggio; Bruce si sparge nel mondo, nei luoghi che vede, nelle persone che incontra, nelle atmosfere che descrive. Volano le sue pagine nell'aria, si slegano dal dorso e dall'autore e vivono e respirano tra gli alberi, nei sentieri, nella luce e nel mare. «Vedo le vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli. Uomini che hanno lasciato una scia di canto ovunque sono andati».

Mi sono perso nelle sue lettere e nella sua vita, raccolte ne L'alternativa nomade, edita ora da Adelphi ma uscita tre anni fa in edizione originale (di cui ha già scritto su queste colonne Stenio Solinas). È la parabola di un ragazzo di otto anni che si conclude con un ragazzo di 48 anni, lo stesso stupore nei suoi occhi celesti. Una parabola che segui con crescente pathos fino alle ultime dolorose lettere; la sua malattia, il suo disperato ottimismo, la sua fede sorgente e la sua morte. Con lo stesso titolo, che è poi di un'opera irrealizzata di Chatwin, uscì nel '94 in Italia la biografia di Nicholas Murray edita dal Settimo Sigillo.

La promessa della sua vita è in tre righe scritte a Michael Cannon: «Cambiare è l'unica cosa per cui vale la pena vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere e mal di cuore». Altrove aveva notato che ci sono scrittori che funzionano solo a domicilio, con la seggiola giusta, gli scaffali di libri e dizionari, e ora un computer; e ci sono altri come lui, che invece scrivono solo quando sono immersi nella vita e camminano nel mondo. L'intera sua esistenza, con la sua opera, è condensata in una lettera a Tom Maschler, qui proposta ma fu già pubblicata in Anatomia dell'irrequietezza. Dopo aver confessato la sua impossibilità di stare un mese nello stesso posto, Bruce così descrive la sua dromomania: «Non ho nessuna ragione economica per muovermi, e avrei tutte le ragioni per star fermo. I miei moventi, dunque sono materialmente irrazionali... ma poi sono tirato indietro da un desiderio di casa. Ho una coazione a vagare e una coazione a tornare - un istinto di rimpatrio, come gli uccelli migratori». In un libro-intervista ad Antonio Gnoli, La nostalgia dello spazio, Chatwin dice: «Il ritorno offre una pienezza di senso che l'andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo alla nostra irrequietezza». L'andare e il tornare come inspirare ed espirare, moti vitali per dare fiato alla vita e anima al corpo... Chatwin diceva che anche gli aborigeni australiani dopo aver errato lungo tutto l'anno tornavano a intervalli stagionali nei loro luoghi sacri per riprendere contatto con le radici ancestrali, fondate sul tempo del sogno. Un modello di vita arcaico ma che si addice bene all'età della globalizzazione: nomadi e spaesati avremo sempre bisogno di un luogo che avvertiremo come la nostra casa e la nostra radice autentica, dove abita la nostra origine e palpita il nostro sogno iniziale. Sarà la musica a riportarci a casa.

Chatwin detesta l'Europa opulenta che si va a suo dire «maializzando», sempre più grassa e inerte, ottusa. «L'involuzione culturale è dieci volte più rapida di quella genetica». Ma Chatwin parla con disprezzo pure «dell'allegra cultura hashishistica» degli hippie per i quali auspica la galera. Nel viaggio Bruce non cerca come loro l'allucinazione e l'utopia ma la radice vera e profonda della realtà, la verità della vita, rispondendo alle sue molle interiori. Cerca i nomadi «per sete di Dio», annota in un taccuino quando si rifugia in un convento sul Monte Athos e partecipa toto corde alla vita monacale e ha un'esperienza spirituale così profonda da non riuscire a scriverne. Le sue pagine migliori, le più intense, sono forse quelle che non scrisse. Ci sono esperienze che non si possono tradurre in arte e in parola senza falsarle.

Chatwin ha un rapporto controverso col giornalismo, scrive articoli «alimentari» come li definiva Prezzolini; detesta «l'iridescente mediocrità» della stampa e la condanna all'oblio delle idee buone mescolate alle cattive. Ma, aggiunge, c'è da considerare l'affitto e i beveraggi... Però riconosce che il giornalismo insegna a uno scrittore l'indispensabile arte della condensazione e la tecnica del cacciatore di storie. E l'origine economica non toglie qualità ai suoi reportage.

Le lettere più struggenti sono quelle che precedono la morte, lettere avvolte nella malattia negata, l'Aids, nel desiderio di tutelare i suoi famigliari dalla verità sulla sua omosessualità e nei propositi di riprendere a viaggiare, mutando vita. C'è tutto il suo desiderio di donare, di pregare, di credere, di compiere esorcismi e atti votivi per guarire miracolosamente. «Spero d'essere stato martoriato da Dio» scrive a Gertrude Chanler, annunciando d'aver compiuto il salto nella fede. Rimpiange di non esser diventato monaco, si professa credente nel rito orientale dei cristiano-ortodossi e annuncia di voler devolvere tutti i suoi beni agli ammalati. Estremi atti per propiziare celeste benevolenza su di lui. Una messa greca accompagnò la sua cremazione. Era il 20 gennaio del 1989 quando i suoi viaggi mutarono direzione ed ebbero per destinazione le vie del cielo, lasciando lungo il passaggio una scia di canti.

martedì 19 novembre 2013

La vendita del patrimonio di Telecom l’ennesimo treno che perde l’Italia...


di Stefano Conti (barbadillo.it)
 
La vicenda Telecom racchiude in sé il paradigma perfetto della classe dirigente industriale e politica dell’Italietta. Il management di Telecom di questi anni si è dimostrato in larga parte quello degli sprechi, come dimostra la gestione allegra di benefit e premi, erogati anche a fronte di colossali flop commerciali, per dirigenti e manager, compresi quelli che, in qualsiasi altra azienda sarebbero stati cacciati via per manifesta incapacità.
Quello della “finanza creativa”, che gonfiava i numeri degli abbonati e delle carte prepagate per far centrare gli obiettivi legati ad un lauto riconoscimento economico, i famigerati MBO (acronimo inglese di management by objectives), sempre ai soliti dirigenti e manager rampanti. Quello delle frodi, come dimostrano le oltre 500mila sim false con il processo a Milano, con accuse varie tra cui l’associazione per delinquere, la ricettazione di documenti identità e false dichiarazioni liberatorie sul trattamento dei dati personali.
Quello che svendeva il patrimonio immobiliare, circa seicento edifici, alla Pirelli-Re Estate per poi riaffittarlo. Immobili che Pirelli avrebbe poi conferito a fondi immobiliari come Tecla e Berenice, che a loro volta sarebbero stati ricomprati dalla Pirelli insieme alla banche americane Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan Stanley, e nuovamente conferiti in una newco. Quello, arcinoto, dello scandalo relativo alle intercettazioni illegali da parte di un gruppo della sicurezza informatica aziendale durante l’era di Tronchetti Provera.
E all’indomani della presentazione del Piano Industriale 20014/16 da parte del Cda abbiamo pensato di trovarci di fronte ad una sorta di deja-vu leggendo della vendita e del riaffitto di ciò che resta dell’enorme patrimonio immobiliare e delle 12.000 torri di trasmissione (le cosiddette stazioni radio base), nonché della svendita di Tim Argentina, puntualmente realizzata dopo qualche giorno.
E sul futuro occupazionale dell’azienda è calata una cortina di silenzio. I piani di societarizzazione di Telecom in diverse aziende, o per dirla più chiaramente di spezzettare il colosso telefonico con tante cessioni di ramo, sono solo il preludio alla perdita di migliaia di posti di lavoro entro tre anni al massimo. Questo ha rappresentato fino ad ora la politica di esternalizzazioni messa in campo dall’azienda, azioni per la quale Telecom è stata ripetutamente condannata dai tribunali di mezza Italia.
In questa vicenda l’assenza della politica è a dir poco sconcertante. A rimetterci saranno ancora una volta i lavoratori e i circa 500mila piccoli azionisti risparmiatori che rappresentano l’85% del capitale, estromessi dall’emissione del prestito convertendo da 1,3 mld di euro che è stato offerto solo ai grandi azionisti come il fondo americano Blackrock (a tal riguardo vi è stata un’ispezione della Guardia di Finanza ed è stato aperto un fascicolo dalla Procura di Roma) e soprattutto l’Italia che, probabilmente, perderà l’ennesimo treno per rilanciare una parte dell’economia e ridurre i costi della P.A. attraverso gli investimenti nello sviluppo della banda larga nel “leggendario” progetto dell’Agenda Digitale.
*segretario nazionale Ugl Telecomunicazioni

lunedì 18 novembre 2013

La vita di Adele: il meschino trionfo della banalità...


di Andrea Chinappi (L'Intellettuale Dissidente)


Tranche de vie, Capolavoro, Toglie il fiato, Cinema di vita: così da qualche settimana viene idolatrato il presuntuoso baluardo del nuovo cinema francese, quello della realtà, della gioventù, come ci dice il regista tunisino Abdellatif Kechiche. Si, perché di realismo si tratta in effetti nel film vincitore dell’ambita Palma d’Oro “ La vita di Adele” ma è un realismo utile, ipocrita, borghese, per i più esigenti radical-chic d’Europa. La storia di due ragazze, una lesbo-militante intellettuale e matura dai capelli blu, e l’altra che si scopre lesbo ma non militante, più giovane della compagna e più ingenua,. Cinquanta anni fa vinceva lo stesso premio un’ altra pellicola presuntuosa, nel senso felice del termine, talmente presuntuosa da far parte di una stagione tra le più importanti del cinema europeo: 1963, “ Il Gattopardo”, Luchino Visconti, Neorealismo Italiano. Kechiche non apre e non chiude nulla, non si domanda cosa fa e per chi lo fa: è un democratico, certo, perché a tutti ci è concesso di vedere le belle chiome delle bellissime attrici infilarsi tra le gambe l’una dell’altra. E poi tutti giù in strada a gridare contro un sistema che non fa dipingere i capelli di blu, che non ci permettere di spogliarci nei bar, che non regala sogni ma divieti. La politica di Kechiche è un liberalismo sfrenato che si contraddice, che si annienta nei luoghi comuni e in un’estetica e in un intreccio pedanti: paffuta, golosa e infantile una, intellettuale, artista, lesbica l’altra. Borghese e conformista Adele, radical-liberal-intellettualoide Emma. Affamata di pasta e cioccolato la prima, cita Sartre e frequenta Les Beaux Arts la seconda.Una cucina e l’altra dipinge. Ottuso e pregiudicante il contesto della castana, dove gli insulti e le paure di essere stati violati dall’amica strana dilagano tra le amiche etero, variopinto fino alla banalità ( l’amico attore che sogna l’America, le accese discussioni su Klimt e Schiele, locali gay e ritratti) il contesto della blu.


La telecamera è fissa sulla dolce bocca di Adele, che si sporca, che mastica, che si appoggia su labbra e su cose, ma che non parla. L’inquadratura è asfissiante, indaga il personaggio, lo rende reale, fa dimenticare di trovarsi nella sala di un cinema. Bisognerebbe ringraziare Kechiche per averci provocato questa illusione, ma bisognerebbe anche ricordargli che il cinema è poesia, arte, che è finzione che fa immaginare e sperare. Il tema è l’amore, non ci sono dubbi; l’obiettivo è dimostrare che l’amore lesbico non ha niente di meno dell’amore eterosessuale, anzi forse è anche meno banale. E bravo allora Kechiche, per questa etica rivoluzionaria e in qualche modo cruda. Ma dov’è questo amore? Non si parla di amore. Le due ragazze parlano con gesti disinibiti, si confrontano con occhiate maliziose, cercano il loro amore nei corpi dell’altra e lo giustificano con sogni erotici. L’estetica del film è ingiustificabile: le uniche scene girate non in primo piano sono le scarne sequenze in cui il regista tunisino ci spiega come due ragazze lesbiche fanno sesso, che sanno anche avere orgasmi come noi, banali eterosessuali, perfettamente simmetriche e compatibili, capacissime e fiere. Il messaggio è: modernismo e libertà! Liberi di amare chi si voglia, ma che abbia i capelli blu e che facciate un bel po’ di sesso. La durata del film si aggira sulle tre ore, poco meno di un Titanic e più de “ Il Gladiatore”, la musica è completamente assente e le interminabili scene animalesche e assolutamente pornografiche ( il film è vietato solo ai minori di 12 anni!) in cui le giovani donne si amano rendono voyeur anche lo spettatore più innocente, danno fastidio anche a quello più abituato. Femministe di tutto il mondo dove siete ora? Non eravate contro la mercificazione della donna? Eccolo lì il corpo giovane delle due ragazze venduto come arte aggiudicarsi il premio per il miglior azzardo e a omaggio di una legge che non a caso fu varata un mese prima dell’uscita del film.


Insieme al recentissimo “ Giovane e Bella” del regista François Ozon, il film del franco-tunisino Abedellatif Kechiche rappresenta la nuova frontiera del cinema francese, fatto di gioventù svogliata, interessata ma non interessante, di corpo ( assolutamente nudo), di sesso per soldi o per amore, e di quella sfumatura dubbiosa, enigmatica, irrisolta che chiude e purtroppo legittima il senso di entrambe le opere.

venerdì 15 novembre 2013

ENNESSIMO RAID ANTIFASCISTA A CASAGGì: QUALCUNO VUOLE ALZARE I TONI?

In questi giorni, con i soliti pretesti, l'ambiente antagonista ha deciso di rialzare i toni e ricominciare a praticare l'antifascismo nelle sue forme più naturali, cioè quelle della minaccia e del vandalismo notturno. In cinque giorni Casaggì è stata oggetto di due raid, entrambi compiuti in piena notte, che hanno sporcato le mura. Le scritte, una delle quali è riportata sopra, sono un triste revival degli anni di piombo: il richiamo alle P38, a pochi giorni dal duplice omicidio di Atene, suona emblematico e paradossale al tempo stesso. Domani, poi, i centri sociali hanno indetto un corteo antifascista che partirà da Piazza Savonarola alle ore 15. Restiamo convinti, come sempre, che non si debba cedere di un metro alle provocazioni. Ringraziamo i consiglieri comunali e regionali di Fratelli d'Italia per la solidarietà espressaci e riportiamo per intero il loro comunicato.
 
 
 
FRATELLI D'ITALIA: "VERGOGNOSE LE SCRITTE CHE INNEGGIANO ALLE P-38 DI FRONTE ALLA SEDE DI VIA FRUSA". "QUALCUNO GIOCA AD ALZARE I TONI DELLE SCONTRO POLITICO, MA SU CERTE COSE NON SI SCHERZA"...
 

Queste le dichiarazioni del consigliere comunal...e Francesco Torselli e dei consiglieri regionali Giovanni Donzelli e Paolo Marcheschi di Fratelli d'Italia:


“Per la seconda volta in pochi giorni, anche oggi, i militanti del Centro Sociale di destra "Casaggì Firenze" hanno trovato la facciata della sede di Via Frusa, che ospita il movimento, coperta di scritte spray (così come anche altri edifici vicini) contenenti offese e minacce.


Nei giorni scorsi i ragazzi avevano reagito responsabilmente all'ennesima bravata notturna di qualche annoiato cronico, armandosi di vernice e pennello e cancellando gli insulti, ma questa volta abbiamo deciso di denunciare noi l'accaduto, vista la gravità delle minacce comparse sui muri. Leggere inni alla P-38 fa venire i brividi, oltre a riportarci alla mente periodi troppo bui della storia recente del nostro paese e crediamo che queste cose non possano passare inosservate. 


Temiamo che qualcuno abbia interesse nell'alzare i toni dello scontro politico, magari per distogliere l'attenzione da una situazione politico-governativa disgraziata che sta imbalsamando il paese. Siamo convinti che su certe cose non siano ammessi lo scherzo e la goliardia ed esprimiamo ovviamente tutta la nostra solidarietà ai ragazzi di Casaggì ed ai militanti di Fratelli d'Italia che si ritrovano ogni giorno nella sede di Via Frusa”.

giovedì 14 novembre 2013

IL 7 DICEMBRE CONCERTO A CASAGGì FIRENZE!


Sabato 7 dicembre Casaggì fa festa. Sono passati più di due anni da quando, nell’ottobre del 2011, inaugurammo la nuova sede di via Frusa, uno spazio costruito con le nostre mani dopo nove mesi di lavori, di sacrifici e di grandi sforzi. Una magnifica sfida, che merita di essere festeggiata a dovere, con la musica degli Ennessepì, uno dei più interessanti progetti musicali che il panorama identitario abbia prodotto negli ultimi anni. La serata, dedicata a Don Chisciotte e alla sua romantica sfida “contro i mulini a vento”, avrà inizio alle 20 con l’apericena e proseguirà, dalle 21, con il concerto dal vivo e la festa aperta a tutti. Un momento comunitario nel quale ritrovarsi, per serrare nuovamente i ranghi e lanciare – ancora una volta – la nostra sfida alle stelle. 

SABATO 7 DICEMBRE 2013 
COMEdonCHISCIOTTE 
FESTA E CONCERTO CON GLI ENNESSEPì 
Dalle 20 apericena, dalle 21 concerto 
CASAGGì FIRENZE – VIA FRUSA 37

mercoledì 13 novembre 2013

Si rifiuta di sventolare la bandiera rossa: un altro monaco tibetano si dà fuoco sull’altare della libertà...


di Gabriele Farro (Secolo d'Italia)


Il regime comunista non riesce a soffocare un altro grido di libertà e il rifiuto di sventolare la bandiera rossa. Ma questo costa altro sangue, altra sofferenza in chi cerca disperatamente di rompere il muro di silenzio e l’indifferenza di chi non vuole sentire il grido di dolore che arriva dalla popolazione, per interesse politico, e gira lo sguardo altrove. Nuova autoimmolazione per il Tibet, dal mese di febbraio 2009 sono ormai 123, una vera strage. Tsering Gyal, un giovane monaco di soli vent’anni, si è dato fuoco a Pema, nella prefettura tibetana autonoma di Golog. A renderlo noto sono state fonti della diaspora tibetana in India. Quella di Tsering Gyal è la venticinquesima autoimmolazione avvenuta dall’inizio di quest’anno. La protesta estrema arriva in un momento in cui in diverse contee del Sichuan e del Qinghai, province limitrofe al Tibet, molte comunità tibetane stanno protestando e sono sotto stretto controllo delle autorità cinesi, per il rifiuto di issare la bandiera rossa di Pechino. Le condizioni dell’ultimo immolato, monaco del monastero di Akyong, non sono state rese note, anche perché la polizia ha spento le fiamme e ha portato il monaco in un vicino ospedale, dove continua a essere sotto sorveglianza degli agenti. Secondo alcune testimonianze diffuse sulla rete, Tsering Gyal ha urlato slogan inneggianti alla liberazione del Tibet dal controllo cinese e al ritorno del Dalai Lama, mentre veniva avviluppato dalle fiamme. L’ultima immolazione era avvenuta ad opera di un uomo, padre di due bambini, lo scorso 28 settembre a Gomang Yutso, nei pressi della sua abitazione, nella contea di Ngaba, Aba per i cinesi, nella provincia cinese del Sichuan.

martedì 12 novembre 2013

Google Earth e Facebook per spiare i contribuenti, Grande Fratello fiscale in UK?

di Giovanni Vasso (Barbadillo)
In Gran Bretagna è scoccata l’ora del Grande Fratello fiscale: gli ispettori delle tasse verificheranno la corrispondenza reale tra le dichiarazioni dei redditi e lo stile di vita dei contribuenti confrontando quanto dichiarato alle autorità con dati acquisiti tramite Google Earth e Facebook.

La Her Majesty Revenue and Custom, agenzia non governativa deputata alla raccolta delle tasse nel reame di sua maestà britannica, stando a quanto riporta il Daily Mail, spierà fin dentro le case dei contribuenti: l’obiettivo è quello di colmare il dislivello dovuto all’evasione fiscale, profondo quanto una voragine di 35 miliardi di sterline (leggi 42 miliardi di euro…).

Le intenzioni degli 007 del Fisco sono da film di fantascienza: c’è chi ipotizza famelici satelliti puntati nelle case dei sudditi di Elisabetta II alla ricerca dell’idraulico che non fa pagare la Vat (corrispondente della nostra Iva) alla signora che lo ha convocato d’urgenza a causa delle perdite delle rubinetterie.

Per coordinare l’immenso sforzo informatico, l’agenzia ha speso cinquanta milioni di sterline per acquistare e programmare il supercomputer Connect. Più tenace dell’italico Serpico, Connect – creato per scopi militari –memorizzerà le posizioni reddituali di milioni di cittadini scandagliando quotidianamente ogni mossa di inglesi, scozzesi, gallesi e nordirlandesi. I dati potranno essere assunti anche tramite Facebook. Basterà farsi una vacanza o postare le immagini della nuova auto acquistata per attivare i sensori del Grande Fratello fiscale.

In Gran Bretagna, patria della privacy a tutti i costi, il caso è servito. Anche perché alcune persone vicine agli ambienti della Hmrc hanno candidamente ammesso che la quantità di informazioni di cui attualmente dispongono gli ispettori delle tasse sui cittadini britannici è fenomenale. E sapere che il Fisco ti spia non è mai una cosa bella.Adesso che punta i suoi occhi elettronici fin dentro le abitazioni, frugando nella vita privata della gente…

lunedì 11 novembre 2013

Lovecraft e Tolkien. Due mondi a confronto...

di Mauro Scacchi (Centro Studi La Runa)


Due mostri sacri della letteratura dell’immaginario del XX secolo. Due precursori: Lovecraft di un peculiare concetto di horror, Tolkien di quel che si può agevolmente definire fantasy classico. In questa sede si proverà a tracciare un parallelo, uno studio comparato tra il viaggiatore onirico americano e il professore inglese. Lacune, mancanze, inesattezze (spero poche) saranno forse presenti ma la sfida è troppo intrigante per non accettarla. La visione del mondo di HPL e Tolkien, la loro Weltanschauung, va analizzata da due prospettive che sono l’una lo specchio dell’altra: la prima da riferirsi alla vita reale dei due autori, la seconda alle loro opere. Un’analisi tanto minuziosa e approfondita richiederebbe un intero volume, perciò qui si passeranno in rassegna i punti di contatto e le divergenze più importanti, seguendo velocemente un flusso costituito da coppie di elementi, a volte eguali, altre molto differenti.

Per iniziare, non è forse sbagliato asserire che erano entrambi dei conservatori. Lovecraft, da giovane, era affascinato dall’Islam e dall’età classica (antichi Romani in particolare) ma poi divenne ateo e materialista. Tolkien fu un cattolico ma per tutta la vita fu appassionato di saghe nordiche dal sapore, per così dire, magico e pagano. Entrambi amavano il mito e non tolleravano la modernità. Entrambi, inoltre, erano incantati dalla natura. Tanto l’uno quanto l’altro hanno riempito le proprie produzioni letterarie di nomi inventati fatti risalire a linguaggi fantasiosi, benché Tolkien fosse un vero creatore in questo senso, mentre Lovecraft lasciava ai lettori la sensazione che esistessero lingue morte collegate a terribili culti segreti senza, però, inventare mai un linguaggio vero e proprio.

In Tolkien vi è la battaglia eterna tra il bene e il male, ma il primo, anche quando assediato, non è mai sconfitto nella sua essenza, sempre è presente un eroismo pregno di speranza, di potenza interiore in grado di scacciare le tenebre. In Lovecraft invece il male è associato all’ignoranza rispetto a ciò che abita negli abissi cosmici, creature innominabili di cui, non appena s’intuisce anche solo l’esistenza, si ha terrore e da cui perciò si deve assolutamente scappare, pena – nella migliore delle ipotesi, scrive HPL – la pazzia o la morte. Quindi in Tolkien il bene vince sul male, mentre in Lovecraft il bene è come un lumicino che si spegne di fronte all’insondabile minaccia aliena.

Entrambi scrissero saggi e poesie in difesa dei generi narrativi cui si sentivano più vicini. I mondi a cui hanno dato vita sono diversi sotto molti aspetti: la Terra di Mezzo è l’Europa di un tempo dimenticato, mentre le ambientazioni lovecraftiane riguardano per lo più il mondo reale, anche se poi si scopre che esso è pieno di entità oscure che, con la loro presenza, lo alterano nei suoi significati più profondi. In Lovecraft il mondo onirico è descritto in modo tale che pare emergere dalle nebbie di ricordi che sfumano non appena ci si sveglia, e i suoi abitanti non necessitano di essere inseriti in una cornice dettagliata poiché la loro funzione è quella di essere delle comparse, quasi ombre che sfiorano il protagonista nei suoi vagabondaggi. Un’inclinazione palesemente pessimistica che ha riscontri con la sua vita reale: era un solitario, malato di nervi (nonché ipocondriaco), sua madre fu una figura opprimente, il suo matrimonio finì male ed egli si chiuse sempre più in se stesso. Affermava di non credere a quello che scriveva, ad altri universi e spiritualità, eppure la sua vita era in quei mondi, in quegli esseri a cavallo tra il concreto e l’immateriale provenienti da regioni intermedie e oscure; una vita, la sua, piena di mostri e di contrizioni spaventose al punto che un’affermazione del genere sembra più un modo ingenuo per esorcizzare le proprie paure e le proprie inadeguatezze, che una dichiarazione sincera.

Tolkien era credente, e comunque mai ha detto né scritto di non ritenere come vera l’esistenza di una dimensione spirituale. Aveva una famiglia che amava e da cui era amato. Era un importante professore di Oxford e i suoi romanzi ebbero un successo incredibile, pur se inaspettato.

Lovecraft, in vita, ebbe successo solo tra gli “addetti ai lavori”, ma economicamente visse sempre sulla soglia della povertà e non si laureò dato che i problemi di salute gli impedivano di recarsi all’università. Tolkien era un uomo di successo, Lovecraft un emarginato. In breve, si può affermare che il primo era “aperto” verso la società, nonostante ebbe modo di contestarne l’eccessiva tecnologia, il secondo era “chiuso”, introverso. Le foto che li ritraggono danno l’impressione di un Tolkien appagato, con la pipa in mano seduto comodamente nel salotto di casa sua, e di un Lovecraft smunto e dalle spalle strette, non proprio la felicità in persona. Eppure in altre foto, meno note, Lovecraft sorride, e il sorriso è quello di un ragazzo (altro che “vecchio”, come lui si sentiva!) ricco di sentimenti, che infatti possedeva e che indirizzava probabilmente più verso i gatti che verso le persone.

Un elemento che è presente in entrambi, e non di poco conto, è il fatto che sia per HPL che per Tolkien i veri protagonisti non erano gli individui che popolavano le loro storie. Per Tolkien il protagonista, il cardine assoluto attorno cui tutto ruotava, era il linguaggio. Egli dapprima inventò una lingua melodiosa, quella elfica (anche se non solo quella), per poi creare un mondo in cui potesse venir parlata. Ecco allora lo scritto epico de il Silmarillion, la grande avventura de Il Signore degli anelli e, prima di questo,Lo Hobbit. Opere in cui Tolkien descrisse con un’accuratezza impareggiabile, senza risultare mai noiosa, usanze e tradizioni d’interi popoli: dal modo in cui si vestivano e mangiavano a quello in cui cavalcavano ed erigevano case e torrioni, fino alle tecniche di guerra. Elfi, nani, uomini e Dúnedain, e perfino orchi e trolls vennero inquadrati all’interno di schemi di pensiero e di vita, per assolvere al compito principale d’utilizzare un certo linguaggio anziché un altro: musicale e leggiadro per gli elfi, pratico per gli uomini, gutturale e dal vocabolario limitato per gli orchi, ecc.

Per Lovecraft, invece, il protagonista era l’orrore. I personaggi delle sue narrazioni erano gli strumenti e i catalizzatori degli orrori che il lettore doveva condividere con l’autore: immedesimandosi in essi, si avrebbe provata la stessa paura, lo stesso brivido gelido di fronte al caos idiota, fuori da ogni legge di natura, che governa l’universo. La natura, per HPL, se da un lato è classica e amabile nelle sue forme esteriori e armoniose, dall’altro è una menzogna che nasconde un’altra natura, quella che sta alla base di tutta la creazione, terrificante e priva di senso. Il meccanicismo razionale è, in Lovecraft, uno “specchio per le allodole” con il quale un’umanità impotente vuol convincere se stessa di poter dare risposte a quesiti al di là delle proprie capacità di soluzione; di ciò HPL è l’esempio vivente, è colui che trasferendo sulla carta le più intime fobie sembra volerle allontanare da sé, convincendosi di essere al di sopra di esse, non credendo nemmeno alla loro esistenza, né tanto meno ad una loro personificazione. Il suo materialismo e ateismo assolvono perciò alla funzione di totem apotropaici che non gli impediscono, però, di continuare a sognare terre e creature dell’incubo, le quali, attraverso un processo d’integrazione del tutto particolare, gli consentono di temere meno quella natura spaventosa di cui sono emblemi. HPL, con i suoi racconti, smentì continuamente le proprie convinzioni a-spiritualiste, anzi accostandosi vieppiù ai propri mostri immaginari iniziò a condividere con essi un mondo altro rispetto al nostro, la cui percezione in certo qual modo lo rendeva più simile alle entità descritte nei suoi lavori che non agli altri esseri umani. Il modello di Pickman, in cui un pittore risulta poi essere imparentato con i mangiatori di carogne, i ghouls, che dipingeva sulle sue tele, può ben illustrare questo concetto. In sostanza, il mondo dell’orrore non è più così terrificante se si inizia a farne parte.

La natura, per HPL, è l’essenza stessa dell’orrore. In Tolkien, invece, è paesaggio vivente (si pensi agli Ent, i «pastori di alberi», più che mai simbolo di una natura che partecipa attivamente alla vita del mondo); bella e rigogliosa o scura e terribile, essa è romantica (nel senso del sublime di byroniana memoria) e riflette l’animo di chi vi è immerso, di coloro che la abitano. La terra della Contea è curata e produce frutti perché vi abitano gli hobbits, a differenza delle paludi (moltissime), pericolose e sinistre, abitate da spiriti inquieti. Ciò che accomuna i due autori è, senza dubbio, anche l’uso dei simboli. Un uso che, consapevole o meno, non si può negare: farlo significherebbe offendere la cultura imponente dei padri dell’horror e del fantasy. I simboli più manifesti nelle rispettive produzioni sono quelli del viaggio, della porta, della montagna, delle isole e della selva oscura, ma anche il mondo crepuscolare e la descrizione delle città sacre. Ve ne sono molti altri, alcuni caratteristici di un solo autore (come la spada, in Tolkien), altri comuni come quello della fisiognomica deforme di alcuni umanoidi (l’abbrutimento interiore dell’individuo?), su cui non ci soffermeremo. Il viaggio, tanto per cominciare. Esso può essere breve o lungo ma è sempre un cammino iniziatico. Durante il tragitto, la Compagnia dell’Anello si sfalda e si ricompatta, acquista consapevolezza di sé e della propria missione. Ogni tappa ha un colore proprio: il verde dei boschi, il nero delle miniere, il rosso del Balrog e del Monte Fato, il blu dei fiumi ecc., ed ogni volta uno o tutti i membri della Compagnia crescono, spesso immolandosi (come Gandalf e Boromir, ma solo il primo sarà meritevole di una nuova e più alta incarnazione).

In Lovecraft il viaggio, anche solo una breve ma perigliosa salita (si pensi aLa casa misteriosa lassù nella nebbia), ha come meta finale la scoperta dell’esistenza di antichi segreti, di luoghi e dimensioni ultraterreni, che inevitabilmente inizia chi lo compie segnandolo per sempre. Il viaggio è come una strada maestra su cui insistono altri simboli. La porta, ad esempio, è simbolo di passaggio fin dagli albori dell’umanità.

Porte e cancelli consentono di entrare in luoghi protetti, ma pure in zone infernali, e quindi di uscirne (ma sempre dopo aver superato qualche genere di prova). Il Signore degli anelli è pieno di queste soglie che danno accesso a veri micromondi e dinanzi alle quali si compiono profezie. Le porte di Lovecraft sono varchi al di là dei quali vi sono altre dimensioni. La montagna, come centro del mondo, testimonia epoche dimenticate, è visibile sin da lontano e giganteggia quando vi si giunge, è nascondiglio di sapienza segreta e di coloro che gelosamente la custodiscono. È nei luoghi elevati che accadono molti eventi portentosi, al pari che nelle loro viscere. L’isola è un altro simbolo che, pur comparendo poche volte, è fondamentale. Si pensi a Númenor, che come Atlantide sprofondò per la superbia e l’orgoglio degli antichi re, e all’isola dove sorge R’lyeh, la città dove dorme Cthulhu, il Grande Antico. Sono luoghi di potere lontani ma che possono sempre essere riscoperti da chi sa dove cercarli.

La selva oscura è la foresta tenebrosa, un simbolo su cui non occorre soffermarsi tanto è stato studiato fino ad oggi.

Il mondo crepuscolare, quello onirico di Randolph Carter e quello dell’ombra in cui vivono i Nazgûl (e che diviene visibile a chi s’infila l’Unico anello), è un limbo di congiunzione tra differenti stati di coscienza, mortale per chi non vi arriva attrezzato. Ma se in Lovecraft esso non è necessariamente il male, in Tolkien è il territorio degli Spettri, la negazione della vita che infetta e avvelena gli incauti che vi si attardano.

In ultimo, per quel che ci compete, vi sono le città. In Alla ricerca del misterioso Kadath di Lovecraft , la città del sogno, difficile da raggiungere, è descritta secondo lo stile di Lord Dunsany (la città di Sardathrion in Tempo e gli dei), e l’architettura comprende terrazze altissime che ricordano, ancora, le montagne; in Tolkien la città per eccellenza è Minas Tirith (invero, anch’essa difficile da raggiungere), in cui si può ravvisare il simbolo delle mura concentriche con la torre svettante nel mezzo, altro “centro del mondo”. Vi sono anche altre città nella Terra di Mezzo, ognuna con il suo significato (Rivendell, per esempio, luogo di un’armonia in larga parte perduta tra gli esseri viventi ed il creato). In HPL le città, in genere, sono però quelle del New England e sono descritte in modo da evidenziarne la nobile decadenza al fine di preparare psicologicamente il lettore a ciò che seguirà nel racconto, solitamente qualcosa di sinistro, di antico eppur pregno di aristocratica conoscenza (come ne il caso di Charles Dexter Ward)

Tolkien e Lovecraft, di primo acchito, non potrebbero sembrare più diversi. Battaglie epiche ed eroi solari nel primo, viaggiatori solitari il più delle volte sconfitti e terrorizzati nel secondo; divinità non manifeste ma alleate degli Uomini in Tolkien, divinità malevole e disgustose (tranne in un caso: l’antropomorfo Nodens, signore delle profondità) in HPL. Tutte differenze che, a un esame più attento, si assottigliano fino a rivelare, in molti casi, somiglianze di fondo. Anche perché ad accostare questi due autori è una visione mitica del mondo, accompagnata dal disprezzo di un iperrealismo tanto narrativo quanto esistenziale. Che si tratti di miti positivi o negativi poco importa. Il mito resta il tratto distintivo di chi giudica insufficiente e deludente la realtà che ci circonda, e ciò era vero sia per Lovecraft che per Tolkien. Sognare, inventare storie, linguaggi e mondi, entrare in contatto con una dimensione potente e magica: ecco il segreto dei due autori e di tutti coloro che li hanno letti e che continueranno a farlo.

sabato 9 novembre 2013

CASAGGì: COSTRUIAMO UN ALTRO MURO! AZIONE CONTRO LE BANCHE A FIRENZE...


AZIONE DIMOSTRATIVA DI CASAGGì CONTRO LA FINANZA. COSTRUITI MURI DI CARTONE DAVANTI ALLE BANCHE DELLA CITTA’: “NELL’ANNIVERARIO DELLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO L’EUROPA DEVE PORSI UN NUOVO OBIETTIVO: ALZARE UN MURO CONTRO LA SPECULAZIONE BANCARIA E FINANZIARIA”
Cinque muri di cartone sono stati simbolicamente innalzati davanti a cinque istituti di credito fiorentini. I muri, fatti di cartone, riportavano una scritta: “Alziamo un muro contro banche e finanza”. E’ un’azione dimostrativa, che simboleggia la volontà di porre un freno alla speculazione bancaria e al primato dell’economia finanziaria.
Nell’anniversario della caduta del muro di Berlino, che ricorre il 9 novembre, i giovani del centro sociale di destra Casaggì hanno scelto di porre l’attenzione sull’attuale situazione dell’Europa, troppo poco attenta alla salute dei propri popoli e assai più propensa ad obbedire ai diktat delle agenzie di rating e della BCE.
La nostra Europa è quella delle Patrie, dei Popoli e delle radici profonde; un’Europa che non ha niente a che fare con Goldman Sachs e Morgan & Stanley; un’Europa fiera della propria appartenenza e pronta a difendere la propria identità; Un’Europa forte, capace di dotarsi di un proprio esercito e di una moneta vera, che non sia la carta straccia imposta dal signoraggio monetario, ma l’emanazione cartacea di una sovranità monetaria che è anche sovranità politica, territoriale e culturale.
I popoli europei, sulla scorta di quanto accaduto recentemente in Ungheria, hanno il dovere di alzare un muro contro la speculazione eretta a sistema. Una fortezza impenetrabile che tagli fuori dalla vita sociale le lunghe mani della finanza e dell’usura, le austerity imposte e le crisi economiche fatte pagare ai lavoratori dipendenti, alle imprese che scelgono di non delocalizzare e ai piccoli risparmiatori.
L’iniziativa, portata avanti anche in altre città d’Italia, è realizzata in collaborazione con Rotta di Collisione, una rete di movimenti, Comunità e spazi identitari attivi su tutto il territorio nazionale.