sabato 30 novembre 2013
venerdì 29 novembre 2013
Sabato in piazza la Rete No Muos: “Vogliamo essere liberi sovrani e apartitici”...
di Geza Kertezs (barbadillo.it)
No Muos contro No Muos? A quanto pare sì, dato che il“Movimento No Muos”
ha organizzato dei presidi contro la manifestazione apartitica indetta
sabato pomeriggio a Palermo dalla “Rete No Muos”. Una decisione che ha
suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica come si può leggere nei
numerosi forum sul web, dove in tanti stigmatizzano l’idea della
contromanifestazione su un tema – l’opposizione all’installazione dei
sistema radar Usa – considerato patrimonio di tutti i siciliani.
Ma andiamo con ordine. «Dietro la decisione di porre un muro tra le
diverse sensibilità di chi si oppone all’installazione delle mega
antenne militari sul territorio di Niscemi, c’è la volontà,
assolutamente non celata da parte del “Movimento No Muos” (connotato
ormai a sinistra, ndr), di capitalizzare le voci di una protesta che
dovrebbe avere per la sua natura territoriale “un valore assolutamente
trasversale e unitario”. Così gli organizzatori della “Rete No Muos”
rispondono a chi invita ad opporsi alla manifestazione organizzata per
sabato a Palermo. Un tentativo monopolizzante confermato nel testo
dell’invito a contro-manifestare lanciato su Facebook dal Movimento. Si
legge infatti: «Nel rispetto della nostra storia e del nostro percorso
politico, pretendiamo quindi che nel corteo non siano utilizzati i
nostri simboli e le nostre bandiere. Invitiamo la stampa – viene
puntualizzato – a non utilizzare immagini di repertorio delle
manifestazioni NO MUOS per pubblicizzare l’evento del 30».
Ed è appunto il rischio di strumentalizzazioni politiche che ha portato
le sigle aderenti alla “Rete No Muos” a indire una manifestazione in cui
la presenza di vessilli partitici è assolutamente bandita. Un’opzione
che, stando a quanto riferiscono gli organizzatori del corteo di sabato,
è maturata dopo la scarsa partecipazione popolare della manifestazione
indetta a Palermo il 28 settembre. Evento, nel quale, l’eccessiva a
presenza di bandiere chiaramente connotate, è stata ritenuta
imbarazzante dagli stessi abitanti di Niscemi.
Spiega infatti Stefano Di Domenico, portavoce della Rete No Muos:
«Quello di sabato sarà un corteo pacifico e gioioso, senza l’esposizione
di bandiere politiche, partitiche o sindacali. Questo sarà proprio il
tratto distintivo rispetto ad altre manifestazioni contro il Muos, degli
scorsi mesi, che hanno portato alla strumentalizzazione politica del
movimento ed al progressivo allontanamento di tanti cittadini».
«Nonostante la mancanza di fondi – fa sapere Di Domenico – tanti
cittadini si stanno organizzando da molte città siciliane con carovane
di auto per raggiungere Palermo. Sono, inoltre, in corso da giorni
assemblee all’interno delle scuole palermitane in stato di agitazione
sul tema del Muos in vista del corteo di sabato. Ne sono certo –
sottolinea – sarà un momento di pura gioia».
“Liberi e Sovrani” è dunque il motto che la Rete No Muos ha scelto come
filo conduttore dell’evento. Una dicitura netta chiamata a sottolineare
come la battaglia contro il Muos di Niscemi sia, in primo luogo, una
battaglia per la libertà e la sovranità di una terra che – spiega il
portavoce – «per troppi anni si è piegata alle volontà degli Usa,
accettata supinamente dalle istituzioni nazionali e regionali».
Il nodo delle contromanifestazioni non turba affatto i preparativi
dell’evento indetto per sabato: «Chi in queste ore invita i cittadini a
non partecipare al corteo – spiega ancora il portavoce della “Rete No
Muos” – non fa altro che dividere il fronte No Muos facendo soltanto il
gioco di Crocetta e degli Usa. Il corteo di sabato sarà il punto di
partenza per la costruzione di un movimento, finalmente trasversale e
libero da qualsiasi ideologia escludente, che sappia coinvolgere i
siciliani in una lotta che ancora non è persa ma che anzi è ancora tutta
da giocare».
giovedì 28 novembre 2013
Il pensiero di Leopardi? Uno Zibaldone di verità...
di Marcello Veneziani (IL Giornale)
Nessun altro autore ha saputo riflettere così profondamente sulla
condizione umana. E nessun pensatore che seguì, da Schopenhauer a
Nietzsche, superò il suo punto di arrivo...
Come sarà accolto Leopardi in versione anglo-americana? È sbarcato in
doppia edizione, britannica e statunitense, con la traduzione del suo
ciclopico Zibaldone. Arriva in America dall'estrema, profondissima
Europa come un Corpo Estraneo, un relitto mediterraneo naufragato
nell'Atlantico, un alieno del pensiero tragico che sbarca senza permesso
di soggiorno nelle terre del pragmatismo e dell'ottimismo.
Nessun autore ha saputo guardare in faccia la verità della vita e del
mondo come Leopardi. Ci sono più grandi filosofi, grandi scienziati e
forse poeti più grandi, ma nessuno ha svelato la condizione umana con la
sua implacabile e acutissima lucidità, senza concedere ripari. La sua
opera è la più alta rivelazione della condizione umana; oltre c'è solo
la Rivelazione divina. Il pensiero che s'inoltrò sulla sua strada e
affrontò i suoi temi - Schopenhauer, Nietzsche, l'esistenzialismo - non
superò il suo punto d'arrivo, se non mediante il salto nella fede. La
sua visione della vita e del mondo esclude che anche il dolore, come la
gioia, possa essere un pregiudizio soggettivo che altera la sostanza
pura della vita, il suo gioco cosmico al di là del bene e del male; a
noi tocca solo scommettere che sia solo caso nel caos o destino che si
collega a un ordine. Leopardi si ferma alla disperazione che precede la
scommessa e degrada la scommessa a illusione. E tuttavia Leopardi è il
poeta e il pensatore più religioso della modernità. Religioso non vuol
dire credente né devoto. La sua è una visione radicale e universale
sulla vita in rapporto alla morte e al dolore. Leopardi resta religioso
anche nella disperazione: il desiderio ardente di morire che accompagnò
sempre la sua breve vita non lo indusse al suicidio.
Corteggiò la morte per anni, la invocò tante volte, ma non si lasciò mai
conquistare dall'idea di togliersi la vita. Perché, spiegò nel Dialogo
di Plotino e di Porfirio, suicidandosi «tutto l'ordine delle cose saria
sovvertito». La certezza che tutto sia connesso in un ordito, è
l'essenza propria della religio e l'idea che infrangere quell'ordine sia
il supremo sacrilegio è quanto di più religioso si possa pensare. Che
poi dietro la Trama del cosmo, dietro l'ordine di tutte le cose, ci sia
un Autore o un'Intelligenza e che dopo la morte vi sia la resurrezione,
questo riguarda la fede, non il pensiero di Leopardi. In lui lo scacco
della Fede non segna il trionfo della Ragione, perché il naufragio
riguarda ambedue: da qui il suo pensiero tragico, divergente dai Lumi e
da ogni storicismo, progressismo o razionalismo. E da qui la sua
ultrafilosofia, che al sistema filosofico preferisce il canto, la
poesia, lo zibaldone di pensieri sparsi. Perché è rivolta alla vita e al
mondo, non alla pura teoria. Oltre che religioso, il pensiero di
Leopardi ha una relazione intensa con l'amor patrio. Sono tante le
pagine leopardiane contro il paese natio, contro l'Italia e gli italiani
cinici e ridenti, privi di costumi; tutto il pensiero leopardiano e la
linea che poi ne discese condannò la retorica patriottarda e le sue
pompose finzioni. Ma è come se volesse rendere l'amor patrio più vero ed
essenziale, antiretorico, privo di fanfare, raccolto nella gloria dei
«nostri padri antichi» e nel rimpianto di tanta altezza caduta «in così
basso loco». Risuona l'amore per l'Italia nei suoi versi e affiora una
concezione eroica della vita, che si esprime nel culto dei vinti.
Anche il Leopardi in fuga dalla casa paterna, dalla famiglia e dai suoi
precetti, dedica poesie, lettere e pagine di un amore intenso e raro al
suo Carissimo Signor Padre che poi diventa Mio Caro Papà, a sua sorella
Paolina, a suo fratello Carlo. Un amore tenerissimo verso la famiglia,
non privo di asprezze e rigetti, ma autentico. La famiglia resta l'alveo
affettivo leopardiano, la sua solitudine non può essere concepita se
non in rapporto alla sua famiglia. Al di sopra dell'amore per la
famiglia, per la patria e per la religio, non c'è che l'amore disperato
per la verità. Se deve scegliere tra Dio e il Vero, tra la Famiglia e il
Vero, tra l'Italia e il Vero, Leopardi sceglie senza indugi il Vero.
Sul piano storico Leopardi colse l'importanza dei pregiudizi e delle
illusioni, detestò la politica giacché gli individui «sono infelici
sotto ogni forma di governo». Sul piano etico Leopardi lodò la nobiltà
dell'inutile, la gloria delle imprese vane. Sul piano estetico riconobbe
commosso il primato della bellezza ma sul piano umano contraddisse
l'ideale classico del bello e buono, notando che la bellezza
insuperbisce chi la possiede mentre la bruttezza incammina verso la
virtù. Il pensiero negativo di Leopardi ha un approdo finale: è
l'Oriente, inteso come il luogo simbolico in cui si dissipa ogni
illusione legata all'individuo per rifluire e disciogliersi nel grembo
assoluto della Natura. Oblio immoto del mondo «e già mi par che sciolte/
giaccian le membra mie, né spirto o senso/ più le commuova, e lor
quiete antica/ co' silenzi del loco si confonda» (La vita solitaria). La
tragedia del vivere per Leopardi risiede nell'individualità che separa
dal tutto; viceversa la salvezza, o almeno la pace, è rientrarvi
sciogliendosi nel tutto, estinguere la vita individuale nell'oceano
dell'essere. «E il naufragar m'è dolce in questo mare»... Prima di
poetare sulla vita e sulla morte, Leopardi adolescente le affrontò sul
piano della filosofia; prima d'illuminarsi di luna e d'infinito, studiò
gli astri e il cosmo.
Versi che sembrano sgorgati da stati d'animo provengono da lontano, da
studi precoci e pensieri sofferti. Stringe il cuore leggere i tanti
passi in cui Leopardi confessa il suo disagio di essere al mondo e di
sentirsi rifiutato. Ma se non fosse stato gobbo, brutto, respinto da
Silvia e irriso dalla gente, se avesse avuto una vita e un corpo come
gli altri, avrebbe mai raggiunto quelle altezze e quelle profondità? Su
quali sentieri lo avrebbe dirottato la vita? Non dobbiamo, con la morte
nel cuore, benedire crudelmente l'amore negato, il corpo deforme, per i
doni sublimi che provocarono? Del resto lui stesso era consapevole del
nesso tra bruttezza e grandezza e si dispose a barattare la vita con la
gloria: «Voglio essere infelice piuttosto che piccolo e soffrire
piuttosto che annoiarmi». «Il ritratto è bruttissimo: nondimeno fatelo
girare costì, acciocché i Recanatesi vedano cogli occhi del corpo (che
sono i soli che hanno) che il gobbo de Leopardi è contato per qualche
cosa nel mondo». Ma pure alla gioia Leopardi aspirò invano: «Ho bisogno
d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita; il mondo non mi par
fatto per me». Inadeguato al mondo, senza di consolanti vie di scampo,
Leopardi mise a nudo la verità della vita. Benché solitario, resta il
più fraterno tra i poeti e pensatori. Nei secoli fratello. E ora Brother
James.
mercoledì 27 novembre 2013
Teo Mammucari scherza su piazzale Loreto. Ed è rivolta sul web...
di Annamaria Gravino (Secolo d'Italia)
Irriverenti, va bene. Ma fino a che punto ci si può spingere per cercare
la battuta facile? Un esempio lo ha fornito la puntata di ieri de Le
Iene, durante la quale Teo Mammucari, parlando di calendari, ha detto
che quello di Mussolini è l’unico che si può mettere a testa in giù. Il
riferimento a piazzale Loreto in un contesto cabarettistico ha provocato
una dura reazione sul web e in particolare sulla pagina facebook del
programma e sul profilo twitter di Mammucari. Per avere un’idea di ciò
che si è scatenato basti dire che in poche ore i commenti al post della
puntata sono arrivati quasi a quota 400. Si va dagli insulti all’augurio
per il conduttore di ritrovasi lui a testa in giù, ma si passa anche
per la frequente, amara constatazione sullo «squallore» di quella
battuta. E se c’è chi si complimenta per la trovata, molti sottolineano
il fatto che ci vorrebbe più rispetto per i morti e per la storia
d’Italia. Certo è che la battuta di Mammucari, che poi vuol dire la
battuta degli autori del programma, dimostra se non altro una rara
superficialità, una incapacità di elaborare che forse è peggio e più
preoccupante perfino di certe manifestazioni di quell’antifascismo
militante per cui la morte, se è di un fascista, non solo non merita
rispetto, ma va accolta con favore, possibilmente anche con dileggio.
Non sembra sia questo il caso.
Le Iene non sono un programma militante, sono un programma mainstream,
che come tale ha spesso la tendenza alla banalizzazione o alla facile
provocazione. Ma di facile, nella faccenda di piazzale Loreto, non c’è
proprio nulla. Quell’episodio, non a caso ancora dibattutissimo e
soggetto a interpretazioni e revisioni anche a sinistra, rimanda a temi
complicatissimi: sul piano strettamente italiano, per esempio, dalla
riflessione sulla storia del secolo scorso alle radici della nostra
democrazia; su un piano più universale, dalla sorte che spesso tocca al
corpo del nemico, tanto più se è stato il capo, all’anima bestiale che
muove le folle nel momento della sconfitta di un regime. La sorte dei
corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci è storia di oggi molto più
di quanto si pensi. Intanto perché non è stata storicizzata, è qualcosa
di cui ancora non si sono capiti fino in fondo portata e significato.
Poi perché, ancora oggi, è diffusa l’idea che del corpo del nemico si
possa fare scempio impunemente. Che anzi, forse, si debba fare scempio
come atto liberatorio, come affermazione di forza, come negazione di una
umanità che tanto più va svilita quanto più ha rappresentato il proprio
specchio. Gli italiani che amarono e seguirono Mussolini furono pronti a
sputare sul suo corpo o per lo meno ad accettare che questo avvenisse
né più né meno di quanto gli iracheni, appena ieri, hanno fatto con
Saddam Hussein. Da qualunque prospettiva si voglia guardare – umana,
civile, politica, storica – in questo c’è qualcosa di profondamente
tragico e smisurato, che dovrebbe rendere inaccettabile per chiunque
l’idea di farne battute da share.
martedì 26 novembre 2013
Giovane precario oggi? Povero anziano domani...
tratto da Barbadillo.it
Precario oggi? Povero (e senza pensione) domani. Lo ha spiegato l’Ocse che ha indicato come in Italia, «l’adeguatezza dei redditi pensionistici potrà essere un problema» per le generazioni future. Riguarderà tutti? No. Sono «i lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti quelli più vulnerabili al rischio di povertà durante la vecchiaia».
Sotto accusa dell’organismo internazionale il “metodo contributivo” e l’assenza di pensioni sociali. Questo perché – è chiaro – senza regolarità nei contratti di assunzione e con un sommerso che dilaga in mancanza di una detassazione sul lavoro il rischio concreto è che un’intera generazione non solo non arrivi ad ottenere la pensione ma che il rischio indigenza in vecchiaia sia direttamente proporzionale al tasso di precariato “giovanile”.
La riforma delle pensioni attuata dal governo tecnico con il ministro Fornero – già bocciata per il caos esodati – non basta. «Le politiche per promuovere l’occupazione e l’occupabilità e per migliorare la capacità degli individui ad avere carriere più lunghe sono essenziali», ha sottolineato l’organizzazione, ricordando che «l’aumento dell’età pensionabile non è sufficiente per garantire che le persone rimangano sul mercato del lavoro».
Precario oggi? Povero (e senza pensione) domani. Lo ha spiegato l’Ocse che ha indicato come in Italia, «l’adeguatezza dei redditi pensionistici potrà essere un problema» per le generazioni future. Riguarderà tutti? No. Sono «i lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti quelli più vulnerabili al rischio di povertà durante la vecchiaia».
Sotto accusa dell’organismo internazionale il “metodo contributivo” e l’assenza di pensioni sociali. Questo perché – è chiaro – senza regolarità nei contratti di assunzione e con un sommerso che dilaga in mancanza di una detassazione sul lavoro il rischio concreto è che un’intera generazione non solo non arrivi ad ottenere la pensione ma che il rischio indigenza in vecchiaia sia direttamente proporzionale al tasso di precariato “giovanile”.
La riforma delle pensioni attuata dal governo tecnico con il ministro Fornero – già bocciata per il caos esodati – non basta. «Le politiche per promuovere l’occupazione e l’occupabilità e per migliorare la capacità degli individui ad avere carriere più lunghe sono essenziali», ha sottolineato l’organizzazione, ricordando che «l’aumento dell’età pensionabile non è sufficiente per garantire che le persone rimangano sul mercato del lavoro».
lunedì 25 novembre 2013
È morto a Torino il filosofo “irregolare” Costanzo Preve: da Marx alla critica all’euro...
di Valerio Goletti (Secolo d'Italia)
È morto a Torino il filosofo Costanzo Preve. Era nato a Valenza (Alessandria) nel 1943, aveva settant’anni ed era ormai malato da più di un anno. Date le sue origini – la madre era armeno ortodossa – ha chiesto di essere sepolto con il rito greco-ortodosso. Una decisione che solo in apparenza contraddice la sua professione di ateismo: infatti Preve, marxista irregolare isolato e criticato dalla sinistra, lontano dalla politica dai primi anni Novanta dopo un intenso periodo di militanza, apprezzato e studiato oggi dagli ambienti della destra antiglobalista, aveva compiuto in piena libertà un percorso che l’aveva trasformato in profondità anche sul piano spirituale. Nella prefazione al carteggio con Luigi Tedeschi, in uscita a breve per Area 51, Stefano Sissa scrive che il suo obiettivo era quello di contrastare sia l’odierno capitalismo sia il nichilismo divorante che contraddistingue la nostra epoca. Non stupisce perciò ritrovare un pensatore come Preve tra quanti hanno difeso Ratzinger dall’attacco dei salotti laicisti. In proposito scriveva che il relativismo «piace solo agli intellettuali sradicati, ma essi sono meno del 3% della popolazione globale. Il rimanente 97% è angosciato dalla morte di Dio, e dal fatto che essa viene sostituita dal circo mediatico, dalla simulazione televisiva, dall’incontinenza pubblicitaria, dalle mode pilotate e dallo spettacolo porno. Ridotta l’intera filosofia a smascheramento delle illusioni metafisiche (…) effettivamente la religione torna ad essere il deposito del senso complessivo delle cose».
Era aperto al dialogo con tutti, e soprattutto – per quell’attitudine curiosa che caratterizza sempre i veri studiosi – con gli ambienti a lui lontani: di qui il confronto con un intellettuale come Alain de Benoist (il cui frutto è stato il libro del 2006 Il paradosso Alain de Benoist, Settimo Sigillo) e di qui anche l’accusa di “rossobrunismo” lanciatagli dai “compagni” che lo hanno visto pian piano distanziarsi dal materialismo dialettico di Marx. Preve era studioso non solo di Marx ma anche della filosofia della Grecia classica, di Spinoza, di Fichte, di Hegel e di Lukács.
Il percorso seguito da Preve – spiega Edoardo Zarelli, altro intellettuale anticonformista convinto, come Preve, che destra e sinistra siano categorie da superare – parte da Marx e giunge al comunitarismo, contesto fondativo di un nuovo umanesimo. Libero dall’osservanza dei dogmi delle varie chiese ideologiche, Preve riteneva che non ci fosse più bisogno dell’antifascismo (criticava il fanatismo di chi considera il fascismo una sostanza ontologica “diabolica”) e si è sempre sottratto al gioco degli opposti estremismi, collaborando con tutti coloro che gli offrivano spazio per diffondere le sue idee sulla geopolitica, sulla filosofia, sulla metapolitica. Un cammino che lo ha portato ad essere vicino al pensiero euroasiatista e a criticare l’euro predicando la necessità di recuperare le sovranità nazionali. La sua libera ricerca, trasversale e priva di pregiudizi, gli ha procurato l’ostilità dell’ambiente di provenienza. L’impossibilità di definirlo, infine, ha fatto sì che venisse ignorato dal mainstream mediatico. L’ultimo suo libro – ne ha scritti oltre quaranta – è Una nuova storia alternativa della filosofia (Petit Plaisance, Pistoia) al cui centro c’è l’uomo come “animale politico” la cui identità va ricostruita per superare l’alienazione economicista.
sabato 23 novembre 2013
Tra Capitan Harlock e tricolori il nuovo movimentismo studentesco identitario...
di Mauro La Mantia (barbadillo.it)
Alla notizia di una nuova mobilitazione studentesca nazionale, indetta
per oggi, in molti si aspettavano le solite manifestazioni nelle città
italiane egemonizzate dai centri sociali: bandiere rosse, vecchi cori
sessantottini riadattai, prime file di studenti con i caschi, scontri
con la polizia. E le ormai immancabili maschere di V per Vendetta, con
il povero Guy Fawkes (ribelle e martire cattolico) arruolato a sua
insaputa dagli antagonisti di sinistra.
Invece oggi è successo qualcosa di inaspettato. Migliaia di studenti in
tutta Italia hanno aderito all’appello lanciato da “Rotta di
Collisione”, il nuovo coordinamento slegato da partiti e sindacati che
riunisce le sigle studentesche identitarie. Appello che invitava gli
studenti a ribellarsi contro le politiche d’austerità del Governo Letta,
sottomesso come quello Monti ai diktat europei, che colpiscono in
primis la cultura e la formazione quindi il futuro delle giovani
generazioni.
Una rivolta generazionale ancorata però ai principi identitari, alla
difesa della sovranità nazionale e della comunità. Per questo gli
studenti scesi in piazza a Roma, Palermo, Torino ed altre città hanno
sventolato soltanto i tricolori, unica bandiera in grado di unire gli
studenti, oltre le appartenenze politiche e geografiche, e rappresentare
questi valori. E per sfidare lo strapotere delle lobby bancarie, che
impongono ai governi queste folli politiche economiche e sociali, gli
studenti hanno scelto di indossare le maschere di Capitan Harlock il
pirata ribelle, tornato in auge per l’atteso film di gennaio, che sfida
l’apatia e l’indifferenza della gente lottando da solo contro chi vuole
saccheggiare il pianeta Terra. Manifestazioni intransigenti nei
contenutiche però non sono sfociate nei soliti scontri troppe volte
visti nelle piazze, nocivi per l’intero movimento studentesco.
La mobilitazione di oggi (“Le scuole crollano, gli studenti no”) è stata
anche incentrata sulla irrisolta questione dell’edilizia scolastica.
Attraverso l’hashtag #lescuolecrollano, gli studenti di “Rotta di
Collisione” hanno denunciato nei giorni scorsi lo stato di degrado delle
scuole italiane, da nord a sud. Da qui la richiesta al Governo di
ammodernamento e messa in sicurezza degli edifici scolastici. Tra le
rivendicazioni anche l’aumento del numero dei rappresentanti di
istituto, la lotta al caro-libri, la riforma della classe docente ed in
generale maggiori investimenti sulla scuola.
A Roma il Ministero dell’Istruzione di Viale Trastevere è stato
assediato pacificamente da oltre mille studenti, a Torino un gran corteo
ha attraversato le vie della città sfidando la neve e la
contromanifestazione dei centri sociali, a Palermo oltre cinquemila
studenti hanno letteralmente invaso il centro della città con blitz e
flash mob davanti i palazzi delle istituzioni. E in altre città si sono
svolti sit-in, assemblee e volantinaggi. «Rappresentiamo una generazione
stufa di combattere contro i mulini a vento. Sappiamo chi sono i nemici
dell’Italia e siamo pronti a smascherarli» dicono gli studenti di
“Rotta di Collisione”. Sembra quindi essere rinato in Italia un
movimentismo studentesco identitario e non omologato. Non si vedeva da
anni.
venerdì 22 novembre 2013
Sardegna e solidarietà: non di sola crisi vive la dignità del nostro popolo...
di Emanuele Ricucci (tratto da Barbadillo.it)
Così ti trovi a
scrivere. Da inerme spettatore. Sai che l’unico gesto utile è la
solidarietà che nasce nel profondo delle corde dell’anima. Sai, in ogni
caso, che essa non può bastare. Partecipai come soccorritore a L’Aquila.
Ad oggi la vita mi impedisce di farlo in Sardegna. Nella profondità dei
miei pensieri capisco che questo si, sarebbe stato utile. Mi trovo a
scrivere. Tristissimo. Ferito dentro. Si, nel 2013, mi sento abbattuto
da italiano. Non ho legami con la Sardegna, ne personali ne d’amicizia,
se non quello di fratellanza che sorge dall’appartenenza allo stesso
popolo; una connessione ideale, a questo punto riscopertasi profonda,
con un popolo che ha la pelle dura. Le fiamme d’estate. L’acqua in
inverno. Incendi ed alluvioni. Questa volta potente. Troppo. Che serve
il mio paese facendo giurare fedeltà ad una Repubblica che, ad oggi,
disconosce, dimentica i suoi figli, ai migliori ragazzi della sua terra,
così controversamente unita al senso d’Italia, al grido di “Avanti
Forza Paris”. Avanti, tutti insieme.
Così mi piace
identificare il popolo sardo. Così mi piace vivere quel senso di
coesione marmorea che inquadra gli italiani. Così L’Aquila, l’Irpinia,
L’Umbria. Così i montanti, lenti e pesanti, assestati dalla storia e
dalla natura ai fianchi della nostra terra. Così, oggi. Olbia. La
Sardegna.
Questo siamo. Rughe
in volto. Instabili come molecole spinta da energia. Ma forti fratelli
che rispondono agli squilli di tromba. Alle urla. In Italia, la
cavalleria alleata arriva sempre. Poi le lamentele, gli scandali, la
corruzione. Le risate e gli affari. Le poltrone e la mancata
organizzazione. La speculazione e l’ipocrisia. Ma quando la terra trema,
in quel secondo. Quando l’acqua scorre, vomitando fango. La forza del
mio popolo esce prorompente. La stessa che compone un’identità
impercettibile ma reale. La stessa dei nostri nonni nel ricostruire la
loro dignità e le mura di un paese di collina dopo la pioggia di bombe.
Mi rivolgo alle
istituzioni. Quelle. Non scappate. Non vi nascondiate. Siete tutori e
rappresentanti del nostro popolo. Sempre. Anche quando vi è dura o
scomodo pensarlo. Anche ora sia rabbia e sdegno, per voi. Anche ora si
invochino i migliori principi della moderna democrazia. Anche ora si
vada incontro ai tempi che cambiano. Anche ora sia Lutto nazionale.
Dignità nazionale. Legame nazionale. Fratellanza Nazionale.
Forza Sardegna. Non c’è montagna che non sappiate scalare. “Avanti Forza Paris”.
Firmato Un fiero italiano
giovedì 21 novembre 2013
A 93 anni si cerca (con l’aiuto del figlio) e si trova su Youtube in un filmato del 1942: partiva per la guerra…
di Desiree Ragazzi (Secolo d'Italia)
La meraviglia di
scoprire a 93 anni YouTube e l’emozione di ritrovarsi in un filmato di
guerra del ’42. È una bella storia familiare quella che ci racconta
Fausto Brambilla dalle pagine del Corriere della Sera. Narra dell’incontro di due mondi: uno proiettato al futuro e l’altro ripiegato alla memoria.
Quello di YouTube
nato solo otto anni fa che insegue miliardi di click e quello di un
anziano signore, suo padre, “confinato” da quando le forze l’hanno
abbandonato nello spazio di casa, che vive tra quotidiano e passato. E
guarda caso lo strumento che lo aiuta a riappropriarsi di alcuni
scampoli di vita trascorsa è un tablet piccolo e luminoso. «Papà,
quello, questo è un piccolo computer», «Ma dai? – dice lui – Quella roba
lì piccola e piatta un computer?», «Sì, basta scrivere il nome di
quello che vuoi cercare e lui lo trova». E così inizia un gioco che lo
porterà tra una curiosità e un’altra a scoprire un video anonimo del ’42
di soldati in partenza dalla caserma di Novara.
La ricerca inizia
su Google. «Scrivi campagna di Russia», dice Francesco Brambilla a suo
figlio. Ed ecco paginate intere e migliaia di siti. Ne viene scelto uno:
tanti volti e tanti nomi. Poi un’altra ricerca, anche questa fortunata.
Ci sono nomi, date di nascita, ricordi che riprendono forma e sostanza.
«Sono l’unico a essere tornato vivo del mio paese», Bellinzago Lombardo
un paesino della campagna milanese. «Non ho mai sparato un colpo –
dice – non ho mai pensato di poter uccider un uomo». Poi un’altra
richiesta: «Prova con Sforzesca, la mia divisione». La data è 1942. Dopo
alcuni giri e la visione di alcuni filmati, ecco arriva quello giusto.
L’inquadratura mostra la scritta “Caserma Passalacqua”. È l’inizio di
un viaggio che lo porterà a settant’anni prima. «È la mia – dice
l’anziano signore al figlio – Quella di Novara, sono partito da lì,
riconosco il cortile, era tutto circondato da alberi». Le immagini
scorrono, poi una carrellata di soldati seduti.
E poi la gioia
esplode al minuto 1 e 35″. «Papà ma quello sei tu», dice il figlio. «Io?
Dove?», «Sì, eri tu, sei uguale a quelle foro che mi hai fatto vedere
tante volte». Torna indietro, rivede le immagini scorrere. E poi la
conferma del papà: «Sì, sono io». E ancora una carrellata di immagini,
con il cursore che va avanti e indietro. L’emozione è tanta. «Ho visto
qualcosa – confessa l’anziano signore – che non mi uscirà più dalla
mente». E poi la considerazione finale di Fausto Brambilla:
«Settant’anni dopo. In mezzo la vita normale di un uomo comune:
Francesco Bra mbilla, da sempre per tutti Mario, classe 1920, caporal
maggiore del 54° Reggimento Fanteria. Un uomo normale con una storia
speciale, che grazie a YouTube vivrà nel futuro».
E nella memoria
di tutti noi. Grazie Fausto per averlo condiviso con tutti noi. Per una
volta dalle pagine di un quotidiano si legge una storia che sa di
famiglia e di buoni sentimenti.
http://www.youtube.com/watch?v=RlAPIA4FSKQ
mercoledì 20 novembre 2013
Chatwin, il viaggiatore inquieto...
di Marcello Veneziani
Il grande autore nomade è una
presenza che si sparge ovunque nel mondo. Ma per lui "il ritorno offre
una pienezza di senso che l'andata da sola non ha"...
Bruce Chatwin non è uno scrittore ma
uno stato d'animo che si è fatto zaino di cuoio, piedi, occhi e visione
del mondo. Il fascino di Chatwin eccede quello dei suoi stessi libri, il
suo mito scavalca le sue opere. Chatwin è forse l'unico autore che si
lascia amare non per i libri ma per il candore avventuroso dei suoi
sguardi alla vita, alla terra, ai popoli; e per i suoi passi verso
l'originario, per il caldo e il freddo che avvertiamo con lui, per la
passione del sole, del sud e del lontano, il suo «rinomato sguardo
azzurro acido» come egli stesso scriveva. Ma concorrono al mito anche la
sua morte precoce, le leggende e le dicerie, l'icona del suo volto come
quello di un Che Guevara biondo che non sogna la rivoluzione ma cerca,
in solitudine, l'essenza divina nella vita errante.
Chatwin è diventato metafora
dell'irrequietezza e allusione a una vita ubiqua. Chatwin è la
Patagonia, l'India e l'Australia, ma anche il Mediterraneo e la Grecia.
Nei titoli delle sue opere, anche postumi, c'è già il suo mito e il suo
programma di vita: Le vie dei canti, Anatomia dell'irrequietezza, Che ci
faccio qui? che è diventato il blasone dell'erranza ma la sua origine -
oltre Rimbaud - è in una battuta di De Gaulle a Churchill durante il
suo esilio a Londra che Chatwin cita. La vita e le opere di Chatwin sono
disseminate nel paesaggio; Bruce si sparge nel mondo, nei luoghi che
vede, nelle persone che incontra, nelle atmosfere che descrive. Volano
le sue pagine nell'aria, si slegano dal dorso e dall'autore e vivono e
respirano tra gli alberi, nei sentieri, nella luce e nel mare. «Vedo le
vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli. Uomini che hanno
lasciato una scia di canto ovunque sono andati».
Mi sono perso nelle sue lettere e
nella sua vita, raccolte ne L'alternativa nomade, edita ora da Adelphi
ma uscita tre anni fa in edizione originale (di cui ha già scritto su
queste colonne Stenio Solinas). È la parabola di un ragazzo di otto anni
che si conclude con un ragazzo di 48 anni, lo stesso stupore nei suoi
occhi celesti. Una parabola che segui con crescente pathos fino alle
ultime dolorose lettere; la sua malattia, il suo disperato ottimismo, la
sua fede sorgente e la sua morte. Con lo stesso titolo, che è poi di
un'opera irrealizzata di Chatwin, uscì nel '94 in Italia la biografia di
Nicholas Murray edita dal Settimo Sigillo.
La promessa della sua vita è in tre
righe scritte a Michael Cannon: «Cambiare è l'unica cosa per cui vale la
pena vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere
e mal di cuore». Altrove aveva notato che ci sono scrittori che
funzionano solo a domicilio, con la seggiola giusta, gli scaffali di
libri e dizionari, e ora un computer; e ci sono altri come lui, che
invece scrivono solo quando sono immersi nella vita e camminano nel
mondo. L'intera sua esistenza, con la sua opera, è condensata in una
lettera a Tom Maschler, qui proposta ma fu già pubblicata in Anatomia
dell'irrequietezza. Dopo aver confessato la sua impossibilità di stare
un mese nello stesso posto, Bruce così descrive la sua dromomania: «Non
ho nessuna ragione economica per muovermi, e avrei tutte le ragioni per
star fermo. I miei moventi, dunque sono materialmente irrazionali... ma
poi sono tirato indietro da un desiderio di casa. Ho una coazione a
vagare e una coazione a tornare - un istinto di rimpatrio, come gli
uccelli migratori». In un libro-intervista ad Antonio Gnoli, La
nostalgia dello spazio, Chatwin dice: «Il ritorno offre una pienezza di
senso che l'andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo
alla nostra irrequietezza». L'andare e il tornare come inspirare ed
espirare, moti vitali per dare fiato alla vita e anima al corpo...
Chatwin diceva che anche gli aborigeni australiani dopo aver errato
lungo tutto l'anno tornavano a intervalli stagionali nei loro luoghi
sacri per riprendere contatto con le radici ancestrali, fondate sul
tempo del sogno. Un modello di vita arcaico ma che si addice bene
all'età della globalizzazione: nomadi e spaesati avremo sempre bisogno
di un luogo che avvertiremo come la nostra casa e la nostra radice
autentica, dove abita la nostra origine e palpita il nostro sogno
iniziale. Sarà la musica a riportarci a casa.
Chatwin detesta l'Europa opulenta che
si va a suo dire «maializzando», sempre più grassa e inerte, ottusa.
«L'involuzione culturale è dieci volte più rapida di quella genetica».
Ma Chatwin parla con disprezzo pure «dell'allegra cultura hashishistica»
degli hippie per i quali auspica la galera. Nel viaggio Bruce non cerca
come loro l'allucinazione e l'utopia ma la radice vera e profonda della
realtà, la verità della vita, rispondendo alle sue molle interiori.
Cerca i nomadi «per sete di Dio», annota in un taccuino quando si
rifugia in un convento sul Monte Athos e partecipa toto corde alla vita
monacale e ha un'esperienza spirituale così profonda da non riuscire a
scriverne. Le sue pagine migliori, le più intense, sono forse quelle che
non scrisse. Ci sono esperienze che non si possono tradurre in arte e
in parola senza falsarle.
Chatwin ha un rapporto controverso
col giornalismo, scrive articoli «alimentari» come li definiva
Prezzolini; detesta «l'iridescente mediocrità» della stampa e la
condanna all'oblio delle idee buone mescolate alle cattive. Ma,
aggiunge, c'è da considerare l'affitto e i beveraggi... Però riconosce
che il giornalismo insegna a uno scrittore l'indispensabile arte della
condensazione e la tecnica del cacciatore di storie. E l'origine
economica non toglie qualità ai suoi reportage.
Le lettere più struggenti sono quelle
che precedono la morte, lettere avvolte nella malattia negata, l'Aids,
nel desiderio di tutelare i suoi famigliari dalla verità sulla sua
omosessualità e nei propositi di riprendere a viaggiare, mutando vita.
C'è tutto il suo desiderio di donare, di pregare, di credere, di
compiere esorcismi e atti votivi per guarire miracolosamente. «Spero
d'essere stato martoriato da Dio» scrive a Gertrude Chanler, annunciando
d'aver compiuto il salto nella fede. Rimpiange di non esser diventato
monaco, si professa credente nel rito orientale dei cristiano-ortodossi e
annuncia di voler devolvere tutti i suoi beni agli ammalati. Estremi
atti per propiziare celeste benevolenza su di lui. Una messa greca
accompagnò la sua cremazione. Era il 20 gennaio del 1989 quando i suoi
viaggi mutarono direzione ed ebbero per destinazione le vie del cielo,
lasciando lungo il passaggio una scia di canti.
di Marcello Veneziani
Il grande autore nomade è una
presenza che si sparge ovunque nel mondo. Ma per lui "il ritorno offre
una pienezza di senso che l'andata da sola non ha"...
Bruce Chatwin non è uno scrittore ma
uno stato d'animo che si è fatto zaino di cuoio, piedi, occhi e visione
del mondo. Il fascino di Chatwin eccede quello dei suoi stessi libri, il
suo mito scavalca le sue opere. Chatwin è forse l'unico autore che si
lascia amare non per i libri ma per il candore avventuroso dei suoi
sguardi alla vita, alla terra, ai popoli; e per i suoi passi verso
l'originario, per il caldo e il freddo che avvertiamo con lui, per la
passione del sole, del sud e del lontano, il suo «rinomato sguardo
azzurro acido» come egli stesso scriveva. Ma concorrono al mito anche la
sua morte precoce, le leggende e le dicerie, l'icona del suo volto come
quello di un Che Guevara biondo che non sogna la rivoluzione ma cerca,
in solitudine, l'essenza divina nella vita errante.
Chatwin è diventato metafora
dell'irrequietezza e allusione a una vita ubiqua. Chatwin è la
Patagonia, l'India e l'Australia, ma anche il Mediterraneo e la Grecia.
Nei titoli delle sue opere, anche postumi, c'è già il suo mito e il suo
programma di vita: Le vie dei canti, Anatomia dell'irrequietezza, Che ci
faccio qui? che è diventato il blasone dell'erranza ma la sua origine -
oltre Rimbaud - è in una battuta di De Gaulle a Churchill durante il
suo esilio a Londra che Chatwin cita. La vita e le opere di Chatwin sono
disseminate nel paesaggio; Bruce si sparge nel mondo, nei luoghi che
vede, nelle persone che incontra, nelle atmosfere che descrive. Volano
le sue pagine nell'aria, si slegano dal dorso e dall'autore e vivono e
respirano tra gli alberi, nei sentieri, nella luce e nel mare. «Vedo le
vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli. Uomini che hanno
lasciato una scia di canto ovunque sono andati».
Mi sono perso nelle sue lettere e
nella sua vita, raccolte ne L'alternativa nomade, edita ora da Adelphi
ma uscita tre anni fa in edizione originale (di cui ha già scritto su
queste colonne Stenio Solinas). È la parabola di un ragazzo di otto anni
che si conclude con un ragazzo di 48 anni, lo stesso stupore nei suoi
occhi celesti. Una parabola che segui con crescente pathos fino alle
ultime dolorose lettere; la sua malattia, il suo disperato ottimismo, la
sua fede sorgente e la sua morte. Con lo stesso titolo, che è poi di
un'opera irrealizzata di Chatwin, uscì nel '94 in Italia la biografia di
Nicholas Murray edita dal Settimo Sigillo.
La promessa della sua vita è in tre
righe scritte a Michael Cannon: «Cambiare è l'unica cosa per cui vale la
pena vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere
e mal di cuore». Altrove aveva notato che ci sono scrittori che
funzionano solo a domicilio, con la seggiola giusta, gli scaffali di
libri e dizionari, e ora un computer; e ci sono altri come lui, che
invece scrivono solo quando sono immersi nella vita e camminano nel
mondo. L'intera sua esistenza, con la sua opera, è condensata in una
lettera a Tom Maschler, qui proposta ma fu già pubblicata in Anatomia
dell'irrequietezza. Dopo aver confessato la sua impossibilità di stare
un mese nello stesso posto, Bruce così descrive la sua dromomania: «Non
ho nessuna ragione economica per muovermi, e avrei tutte le ragioni per
star fermo. I miei moventi, dunque sono materialmente irrazionali... ma
poi sono tirato indietro da un desiderio di casa. Ho una coazione a
vagare e una coazione a tornare - un istinto di rimpatrio, come gli
uccelli migratori». In un libro-intervista ad Antonio Gnoli, La
nostalgia dello spazio, Chatwin dice: «Il ritorno offre una pienezza di
senso che l'andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo
alla nostra irrequietezza». L'andare e il tornare come inspirare ed
espirare, moti vitali per dare fiato alla vita e anima al corpo...
Chatwin diceva che anche gli aborigeni australiani dopo aver errato
lungo tutto l'anno tornavano a intervalli stagionali nei loro luoghi
sacri per riprendere contatto con le radici ancestrali, fondate sul
tempo del sogno. Un modello di vita arcaico ma che si addice bene
all'età della globalizzazione: nomadi e spaesati avremo sempre bisogno
di un luogo che avvertiremo come la nostra casa e la nostra radice
autentica, dove abita la nostra origine e palpita il nostro sogno
iniziale. Sarà la musica a riportarci a casa.
Chatwin detesta l'Europa opulenta che
si va a suo dire «maializzando», sempre più grassa e inerte, ottusa.
«L'involuzione culturale è dieci volte più rapida di quella genetica».
Ma Chatwin parla con disprezzo pure «dell'allegra cultura hashishistica»
degli hippie per i quali auspica la galera. Nel viaggio Bruce non cerca
come loro l'allucinazione e l'utopia ma la radice vera e profonda della
realtà, la verità della vita, rispondendo alle sue molle interiori.
Cerca i nomadi «per sete di Dio», annota in un taccuino quando si
rifugia in un convento sul Monte Athos e partecipa toto corde alla vita
monacale e ha un'esperienza spirituale così profonda da non riuscire a
scriverne. Le sue pagine migliori, le più intense, sono forse quelle che
non scrisse. Ci sono esperienze che non si possono tradurre in arte e
in parola senza falsarle.
Chatwin ha un rapporto controverso
col giornalismo, scrive articoli «alimentari» come li definiva
Prezzolini; detesta «l'iridescente mediocrità» della stampa e la
condanna all'oblio delle idee buone mescolate alle cattive. Ma,
aggiunge, c'è da considerare l'affitto e i beveraggi... Però riconosce
che il giornalismo insegna a uno scrittore l'indispensabile arte della
condensazione e la tecnica del cacciatore di storie. E l'origine
economica non toglie qualità ai suoi reportage.
Le lettere più struggenti sono quelle
che precedono la morte, lettere avvolte nella malattia negata, l'Aids,
nel desiderio di tutelare i suoi famigliari dalla verità sulla sua
omosessualità e nei propositi di riprendere a viaggiare, mutando vita.
C'è tutto il suo desiderio di donare, di pregare, di credere, di
compiere esorcismi e atti votivi per guarire miracolosamente. «Spero
d'essere stato martoriato da Dio» scrive a Gertrude Chanler, annunciando
d'aver compiuto il salto nella fede. Rimpiange di non esser diventato
monaco, si professa credente nel rito orientale dei cristiano-ortodossi e
annuncia di voler devolvere tutti i suoi beni agli ammalati. Estremi
atti per propiziare celeste benevolenza su di lui. Una messa greca
accompagnò la sua cremazione. Era il 20 gennaio del 1989 quando i suoi
viaggi mutarono direzione ed ebbero per destinazione le vie del cielo,
lasciando lungo il passaggio una scia di canti.
martedì 19 novembre 2013
La vendita del patrimonio di Telecom l’ennesimo treno che perde l’Italia...
di Stefano Conti (barbadillo.it)
La vicenda Telecom racchiude in sé il paradigma perfetto della classe
dirigente industriale e politica dell’Italietta. Il management di
Telecom di questi anni si è dimostrato in larga parte quello degli
sprechi, come dimostra la gestione allegra di benefit e premi, erogati
anche a fronte di colossali flop commerciali, per dirigenti e manager,
compresi quelli che, in qualsiasi altra azienda sarebbero stati cacciati
via per manifesta incapacità.
Quello della “finanza creativa”, che gonfiava i numeri degli abbonati e
delle carte prepagate per far centrare gli obiettivi legati ad un lauto
riconoscimento economico, i famigerati MBO (acronimo inglese di
management by objectives), sempre ai soliti dirigenti e manager
rampanti. Quello delle frodi, come dimostrano le oltre 500mila sim false
con il processo a Milano, con accuse varie tra cui l’associazione per
delinquere, la ricettazione di documenti identità e false dichiarazioni
liberatorie sul trattamento dei dati personali.
Quello che svendeva il patrimonio immobiliare, circa seicento edifici,
alla Pirelli-Re Estate per poi riaffittarlo. Immobili che Pirelli
avrebbe poi conferito a fondi immobiliari come Tecla e Berenice, che a
loro volta sarebbero stati ricomprati dalla Pirelli insieme alla banche
americane Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan Stanley, e nuovamente
conferiti in una newco. Quello, arcinoto, dello scandalo relativo alle
intercettazioni illegali da parte di un gruppo della sicurezza
informatica aziendale durante l’era di Tronchetti Provera.
E all’indomani della presentazione del Piano Industriale 20014/16 da
parte del Cda abbiamo pensato di trovarci di fronte ad una sorta di
deja-vu leggendo della vendita e del riaffitto di ciò che resta
dell’enorme patrimonio immobiliare e delle 12.000 torri di trasmissione
(le cosiddette stazioni radio base), nonché della svendita di Tim
Argentina, puntualmente realizzata dopo qualche giorno.
E sul futuro occupazionale dell’azienda è calata una cortina di
silenzio. I piani di societarizzazione di Telecom in diverse aziende, o
per dirla più chiaramente di spezzettare il colosso telefonico con tante
cessioni di ramo, sono solo il preludio alla perdita di migliaia di
posti di lavoro entro tre anni al massimo. Questo ha rappresentato fino
ad ora la politica di esternalizzazioni messa in campo dall’azienda,
azioni per la quale Telecom è stata ripetutamente condannata dai
tribunali di mezza Italia.
In questa vicenda l’assenza della politica è a dir poco sconcertante. A
rimetterci saranno ancora una volta i lavoratori e i circa 500mila
piccoli azionisti risparmiatori che rappresentano l’85% del capitale,
estromessi dall’emissione del prestito convertendo da 1,3 mld di euro
che è stato offerto solo ai grandi azionisti come il fondo americano
Blackrock (a tal riguardo vi è stata un’ispezione della Guardia di
Finanza ed è stato aperto un fascicolo dalla Procura di Roma) e
soprattutto l’Italia che, probabilmente, perderà l’ennesimo treno per
rilanciare una parte dell’economia e ridurre i costi della P.A.
attraverso gli investimenti nello sviluppo della banda larga nel
“leggendario” progetto dell’Agenda Digitale.
*segretario nazionale Ugl Telecomunicazioni
lunedì 18 novembre 2013
La vita di Adele: il meschino trionfo della banalità...
di Andrea Chinappi (L'Intellettuale Dissidente)
Tranche de vie,
Capolavoro, Toglie il fiato, Cinema di vita: così da qualche settimana
viene idolatrato il presuntuoso baluardo del nuovo cinema francese,
quello della realtà, della gioventù, come ci dice il regista tunisino
Abdellatif Kechiche. Si, perché di realismo si tratta in effetti nel
film vincitore dell’ambita Palma d’Oro “ La vita di Adele” ma è un
realismo utile, ipocrita, borghese, per i più esigenti radical-chic
d’Europa. La storia di due ragazze, una lesbo-militante intellettuale e
matura dai capelli blu, e l’altra che si scopre lesbo ma non militante,
più giovane della compagna e più ingenua,. Cinquanta anni fa vinceva lo
stesso premio un’ altra pellicola presuntuosa, nel senso felice del
termine, talmente presuntuosa da far parte di una stagione tra le più
importanti del cinema europeo: 1963, “ Il Gattopardo”, Luchino Visconti,
Neorealismo Italiano. Kechiche non apre e non chiude nulla, non si
domanda cosa fa e per chi lo fa: è un democratico, certo, perché a tutti
ci è concesso di vedere le belle chiome delle bellissime attrici
infilarsi tra le gambe l’una dell’altra. E poi tutti giù in strada a
gridare contro un sistema che non fa dipingere i capelli di blu, che non
ci permettere di spogliarci nei bar, che non regala sogni ma divieti.
La politica di Kechiche è un liberalismo sfrenato che si contraddice,
che si annienta nei luoghi comuni e in un’estetica e in un intreccio
pedanti: paffuta, golosa e infantile una, intellettuale, artista,
lesbica l’altra. Borghese e conformista Adele,
radical-liberal-intellettualoide Emma. Affamata di pasta e cioccolato la
prima, cita Sartre e frequenta Les Beaux Arts la seconda.Una cucina e
l’altra dipinge. Ottuso e pregiudicante il contesto della castana, dove
gli insulti e le paure di essere stati violati dall’amica strana
dilagano tra le amiche etero, variopinto fino alla banalità ( l’amico
attore che sogna l’America, le accese discussioni su Klimt e Schiele,
locali gay e ritratti) il contesto della blu.
La telecamera è
fissa sulla dolce bocca di Adele, che si sporca, che mastica, che si
appoggia su labbra e su cose, ma che non parla. L’inquadratura è
asfissiante, indaga il personaggio, lo rende reale, fa dimenticare di
trovarsi nella sala di un cinema. Bisognerebbe ringraziare Kechiche per
averci provocato questa illusione, ma bisognerebbe anche ricordargli che
il cinema è poesia, arte, che è finzione che fa immaginare e sperare.
Il tema è l’amore, non ci sono dubbi; l’obiettivo è dimostrare che
l’amore lesbico non ha niente di meno dell’amore eterosessuale, anzi
forse è anche meno banale. E bravo allora Kechiche, per questa etica
rivoluzionaria e in qualche modo cruda. Ma dov’è questo amore? Non si
parla di amore. Le due ragazze parlano con gesti disinibiti, si
confrontano con occhiate maliziose, cercano il loro amore nei corpi
dell’altra e lo giustificano con sogni erotici. L’estetica del film è
ingiustificabile: le uniche scene girate non in primo piano sono le
scarne sequenze in cui il regista tunisino ci spiega come due ragazze
lesbiche fanno sesso, che sanno anche avere orgasmi come noi, banali
eterosessuali, perfettamente simmetriche e compatibili, capacissime e
fiere. Il messaggio è: modernismo e libertà! Liberi di amare chi si
voglia, ma che abbia i capelli blu e che facciate un bel po’ di sesso.
La durata del film si aggira sulle tre ore, poco meno di un Titanic e
più de “ Il Gladiatore”, la musica è completamente assente e le
interminabili scene animalesche e assolutamente pornografiche ( il film è
vietato solo ai minori di 12 anni!) in cui le giovani donne si amano
rendono voyeur anche lo spettatore più innocente, danno fastidio anche a
quello più abituato. Femministe di tutto il mondo dove siete ora? Non
eravate contro la mercificazione della donna? Eccolo lì il corpo giovane
delle due ragazze venduto come arte aggiudicarsi il premio per il
miglior azzardo e a omaggio di una legge che non a caso fu varata un
mese prima dell’uscita del film.
Insieme al
recentissimo “ Giovane e Bella” del regista François Ozon, il film del
franco-tunisino Abedellatif Kechiche rappresenta la nuova frontiera del
cinema francese, fatto di gioventù svogliata, interessata ma non
interessante, di corpo ( assolutamente nudo), di sesso per soldi o per
amore, e di quella sfumatura dubbiosa, enigmatica, irrisolta che chiude e
purtroppo legittima il senso di entrambe le opere.
venerdì 15 novembre 2013
ENNESSIMO RAID ANTIFASCISTA A CASAGGì: QUALCUNO VUOLE ALZARE I TONI?
In
questi giorni, con i soliti pretesti, l'ambiente antagonista ha deciso
di rialzare i toni e ricominciare a praticare l'antifascismo nelle sue
forme più naturali, cioè quelle della minaccia e del vandalismo
notturno. In cinque giorni Casaggì è stata oggetto di due raid, entrambi
compiuti in piena notte, che hanno sporcato le mura. Le scritte, una
delle quali è riportata sopra, sono un triste revival degli anni di
piombo: il richiamo alle P38, a pochi giorni dal duplice omicidio di
Atene, suona emblematico e paradossale al tempo stesso. Domani, poi, i
centri sociali hanno indetto un corteo antifascista che partirà da
Piazza Savonarola alle ore 15. Restiamo convinti, come sempre, che non
si debba cedere di un metro alle provocazioni. Ringraziamo i consiglieri
comunali e regionali di Fratelli d'Italia per la solidarietà espressaci
e riportiamo per intero il loro comunicato.
FRATELLI
D'ITALIA: "VERGOGNOSE LE SCRITTE CHE INNEGGIANO ALLE P-38 DI FRONTE
ALLA SEDE DI VIA FRUSA". "QUALCUNO GIOCA AD ALZARE I TONI DELLE SCONTRO
POLITICO, MA SU CERTE COSE NON SI SCHERZA"...
Queste le dichiarazioni del consigliere comunal...e Francesco Torselli e dei consiglieri regionali Giovanni Donzelli e Paolo Marcheschi di Fratelli d'Italia:
“Per la seconda volta in pochi giorni, anche oggi, i militanti del Centro Sociale di destra "Casaggì Firenze" hanno trovato la facciata della sede di Via Frusa, che ospita il movimento, coperta di scritte spray (così come anche altri edifici vicini) contenenti offese e minacce.
Nei giorni scorsi i ragazzi avevano reagito responsabilmente all'ennesima bravata notturna di qualche annoiato cronico, armandosi di vernice e pennello e cancellando gli insulti, ma questa volta abbiamo deciso di denunciare noi l'accaduto, vista la gravità delle minacce comparse sui muri. Leggere inni alla P-38 fa venire i brividi, oltre a riportarci alla mente periodi troppo bui della storia recente del nostro paese e crediamo che queste cose non possano passare inosservate.
Temiamo che qualcuno abbia interesse nell'alzare i toni dello scontro politico, magari per distogliere l'attenzione da una situazione politico-governativa disgraziata che sta imbalsamando il paese. Siamo convinti che su certe cose non siano ammessi lo scherzo e la goliardia ed esprimiamo ovviamente tutta la nostra solidarietà ai ragazzi di Casaggì ed ai militanti di Fratelli d'Italia che si ritrovano ogni giorno nella sede di Via Frusa”.
giovedì 14 novembre 2013
IL 7 DICEMBRE CONCERTO A CASAGGì FIRENZE!
SABATO 7 DICEMBRE 2013
COMEdonCHISCIOTTE
FESTA E CONCERTO CON GLI ENNESSEPì
Dalle 20 apericena, dalle 21 concerto
CASAGGì FIRENZE – VIA FRUSA 37
mercoledì 13 novembre 2013
Si rifiuta di sventolare la bandiera rossa: un altro monaco tibetano si dà fuoco sull’altare della libertà...
di Gabriele Farro (Secolo d'Italia)
Il regime comunista non riesce a soffocare un altro grido di libertà e
il rifiuto di sventolare la bandiera rossa. Ma questo costa altro
sangue, altra sofferenza in chi cerca disperatamente di rompere il muro
di silenzio e l’indifferenza di chi non vuole sentire il grido di dolore
che arriva dalla popolazione, per interesse politico, e gira lo sguardo
altrove. Nuova autoimmolazione per il Tibet, dal mese di febbraio 2009
sono ormai 123, una vera strage. Tsering Gyal, un giovane monaco di soli
vent’anni, si è dato fuoco a Pema, nella prefettura tibetana autonoma
di Golog. A renderlo noto sono state fonti della diaspora tibetana in
India. Quella di Tsering Gyal è la venticinquesima autoimmolazione
avvenuta dall’inizio di quest’anno. La protesta estrema arriva in un
momento in cui in diverse contee del Sichuan e del Qinghai, province
limitrofe al Tibet, molte comunità tibetane stanno protestando e sono
sotto stretto controllo delle autorità cinesi, per il rifiuto di issare
la bandiera rossa di Pechino. Le condizioni dell’ultimo immolato, monaco
del monastero di Akyong, non sono state rese note, anche perché la
polizia ha spento le fiamme e ha portato il monaco in un vicino
ospedale, dove continua a essere sotto sorveglianza degli agenti.
Secondo alcune testimonianze diffuse sulla rete, Tsering Gyal ha urlato
slogan inneggianti alla liberazione del Tibet dal controllo cinese e al
ritorno del Dalai Lama, mentre veniva avviluppato dalle fiamme. L’ultima
immolazione era avvenuta ad opera di un uomo, padre di due bambini, lo
scorso 28 settembre a Gomang Yutso, nei pressi della sua abitazione,
nella contea di Ngaba, Aba per i cinesi, nella provincia cinese del
Sichuan.
martedì 12 novembre 2013
Google Earth e Facebook per spiare i contribuenti, Grande Fratello fiscale in UK?
In Gran Bretagna è
scoccata l’ora del Grande Fratello fiscale: gli ispettori delle tasse
verificheranno la corrispondenza reale tra le dichiarazioni dei redditi e
lo stile di vita dei contribuenti confrontando quanto dichiarato alle
autorità con dati acquisiti tramite Google Earth e Facebook.
La Her Majesty
Revenue and Custom, agenzia non governativa deputata alla raccolta delle
tasse nel reame di sua maestà britannica, stando a quanto riporta il
Daily Mail, spierà fin dentro le case dei contribuenti: l’obiettivo è
quello di colmare il dislivello dovuto all’evasione fiscale, profondo
quanto una voragine di 35 miliardi di sterline (leggi 42 miliardi di
euro…).
Le intenzioni degli
007 del Fisco sono da film di fantascienza: c’è chi ipotizza famelici
satelliti puntati nelle case dei sudditi di Elisabetta II alla ricerca
dell’idraulico che non fa pagare la Vat (corrispondente della nostra
Iva) alla signora che lo ha convocato d’urgenza a causa delle perdite
delle rubinetterie.
Per coordinare
l’immenso sforzo informatico, l’agenzia ha speso cinquanta milioni di
sterline per acquistare e programmare il supercomputer Connect. Più
tenace dell’italico Serpico, Connect – creato per scopi militari
–memorizzerà le posizioni reddituali di milioni di cittadini
scandagliando quotidianamente ogni mossa di inglesi, scozzesi, gallesi e
nordirlandesi. I dati potranno essere assunti anche tramite Facebook.
Basterà farsi una vacanza o postare le immagini della nuova auto
acquistata per attivare i sensori del Grande Fratello fiscale.
In Gran Bretagna,
patria della privacy a tutti i costi, il caso è servito. Anche perché
alcune persone vicine agli ambienti della Hmrc hanno candidamente
ammesso che la quantità di informazioni di cui attualmente dispongono
gli ispettori delle tasse sui cittadini britannici è fenomenale. E
sapere che il Fisco ti spia non è mai una cosa bella.Adesso che punta i
suoi occhi elettronici fin dentro le abitazioni, frugando nella vita
privata della gente…
lunedì 11 novembre 2013
Lovecraft e Tolkien. Due mondi a confronto...
di Mauro Scacchi (Centro Studi La Runa)
Due mostri sacri
della letteratura dell’immaginario del XX secolo. Due precursori:
Lovecraft di un peculiare concetto di horror, Tolkien di quel che si può
agevolmente definire fantasy classico. In questa sede si proverà a
tracciare un parallelo, uno studio comparato tra il viaggiatore onirico
americano e il professore inglese. Lacune, mancanze, inesattezze (spero
poche) saranno forse presenti ma la sfida è troppo intrigante per non
accettarla. La visione del mondo di HPL e Tolkien, la loro
Weltanschauung, va analizzata da due prospettive che sono l’una lo
specchio dell’altra: la prima da riferirsi alla vita reale dei due
autori, la seconda alle loro opere. Un’analisi tanto minuziosa e
approfondita richiederebbe un intero volume, perciò qui si passeranno in
rassegna i punti di contatto e le divergenze più importanti, seguendo
velocemente un flusso costituito da coppie di elementi, a volte eguali,
altre molto differenti.
Per iniziare, non è
forse sbagliato asserire che erano entrambi dei conservatori.
Lovecraft, da giovane, era affascinato dall’Islam e dall’età classica
(antichi Romani in particolare) ma poi divenne ateo e materialista.
Tolkien fu un cattolico ma per tutta la vita fu appassionato di saghe
nordiche dal sapore, per così dire, magico e pagano. Entrambi amavano il
mito e non tolleravano la modernità. Entrambi, inoltre, erano incantati
dalla natura. Tanto l’uno quanto l’altro hanno riempito le proprie
produzioni letterarie di nomi inventati fatti risalire a linguaggi
fantasiosi, benché Tolkien fosse un vero creatore in questo senso,
mentre Lovecraft lasciava ai lettori la sensazione che esistessero
lingue morte collegate a terribili culti segreti senza, però, inventare
mai un linguaggio vero e proprio.
In Tolkien vi è la
battaglia eterna tra il bene e il male, ma il primo, anche quando
assediato, non è mai sconfitto nella sua essenza, sempre è presente un
eroismo pregno di speranza, di potenza interiore in grado di scacciare
le tenebre. In Lovecraft invece il male è associato all’ignoranza
rispetto a ciò che abita negli abissi cosmici, creature innominabili di
cui, non appena s’intuisce anche solo l’esistenza, si ha terrore e da
cui perciò si deve assolutamente scappare, pena – nella migliore delle
ipotesi, scrive HPL – la pazzia o la morte. Quindi in Tolkien il bene
vince sul male, mentre in Lovecraft il bene è come un lumicino che si
spegne di fronte all’insondabile minaccia aliena.
Entrambi
scrissero saggi e poesie in difesa dei generi narrativi cui si
sentivano più vicini. I mondi a cui hanno dato vita sono diversi sotto
molti aspetti: la Terra di Mezzo è l’Europa di un tempo dimenticato,
mentre le ambientazioni lovecraftiane riguardano per lo più il mondo
reale, anche se poi si scopre che esso è pieno di entità oscure che, con
la loro presenza, lo alterano nei suoi significati più profondi. In
Lovecraft il mondo onirico è descritto in modo tale che pare emergere
dalle nebbie di ricordi che sfumano non appena ci si sveglia, e i suoi
abitanti non necessitano di essere inseriti in una cornice dettagliata
poiché la loro funzione è quella di essere delle comparse, quasi ombre
che sfiorano il protagonista nei suoi vagabondaggi. Un’inclinazione
palesemente pessimistica che ha riscontri con la sua vita reale: era un
solitario, malato di nervi (nonché ipocondriaco), sua madre fu una
figura opprimente, il suo matrimonio finì male ed egli si chiuse sempre
più in se stesso. Affermava di non credere a quello che scriveva, ad
altri universi e spiritualità, eppure la sua vita era in quei mondi, in
quegli esseri a cavallo tra il concreto e l’immateriale provenienti da
regioni intermedie e oscure; una vita, la sua, piena di mostri e di
contrizioni spaventose al punto che un’affermazione del genere sembra
più un modo ingenuo per esorcizzare le proprie paure e le proprie
inadeguatezze, che una dichiarazione sincera.
Tolkien era
credente, e comunque mai ha detto né scritto di non ritenere come vera
l’esistenza di una dimensione spirituale. Aveva una famiglia che amava e
da cui era amato. Era un importante professore di Oxford e i suoi
romanzi ebbero un successo incredibile, pur se inaspettato.
Lovecraft, in vita,
ebbe successo solo tra gli “addetti ai lavori”, ma economicamente visse
sempre sulla soglia della povertà e non si laureò dato che i problemi
di salute gli impedivano di recarsi all’università. Tolkien era un uomo
di successo, Lovecraft un emarginato. In breve, si può affermare che il
primo era “aperto” verso la società, nonostante ebbe modo di contestarne
l’eccessiva tecnologia, il secondo era “chiuso”, introverso. Le foto
che li ritraggono danno l’impressione di un Tolkien appagato, con la
pipa in mano seduto comodamente nel salotto di casa sua, e di un
Lovecraft smunto e dalle spalle strette, non proprio la felicità in
persona. Eppure in altre foto, meno note, Lovecraft sorride, e il
sorriso è quello di un ragazzo (altro che “vecchio”, come lui si
sentiva!) ricco di sentimenti, che infatti possedeva e che indirizzava
probabilmente più verso i gatti che verso le persone.
Un elemento che è
presente in entrambi, e non di poco conto, è il fatto che sia per HPL
che per Tolkien i veri protagonisti non erano gli individui che
popolavano le loro storie. Per Tolkien il protagonista, il cardine
assoluto attorno cui tutto ruotava, era il linguaggio. Egli dapprima
inventò una lingua melodiosa, quella elfica (anche se non solo quella),
per poi creare un mondo in cui potesse venir parlata. Ecco allora lo
scritto epico de il Silmarillion, la grande avventura de Il Signore
degli anelli e, prima di questo,Lo Hobbit. Opere in cui Tolkien
descrisse con un’accuratezza impareggiabile, senza risultare mai noiosa,
usanze e tradizioni d’interi popoli: dal modo in cui si vestivano e
mangiavano a quello in cui cavalcavano ed erigevano case e torrioni,
fino alle tecniche di guerra. Elfi, nani, uomini e Dúnedain, e perfino
orchi e trolls vennero inquadrati all’interno di schemi di pensiero e di
vita, per assolvere al compito principale d’utilizzare un certo
linguaggio anziché un altro: musicale e leggiadro per gli elfi, pratico
per gli uomini, gutturale e dal vocabolario limitato per gli orchi, ecc.
Per Lovecraft,
invece, il protagonista era l’orrore. I personaggi delle sue narrazioni
erano gli strumenti e i catalizzatori degli orrori che il lettore doveva
condividere con l’autore: immedesimandosi in essi, si avrebbe provata
la stessa paura, lo stesso brivido gelido di fronte al caos idiota,
fuori da ogni legge di natura, che governa l’universo. La natura, per
HPL, se da un lato è classica e amabile nelle sue forme esteriori e
armoniose, dall’altro è una menzogna che nasconde un’altra natura,
quella che sta alla base di tutta la creazione, terrificante e priva di
senso. Il meccanicismo razionale è, in Lovecraft, uno “specchio per le
allodole” con il quale un’umanità impotente vuol convincere se stessa di
poter dare risposte a quesiti al di là delle proprie capacità di
soluzione; di ciò HPL è l’esempio vivente, è colui che trasferendo sulla
carta le più intime fobie sembra volerle allontanare da sé,
convincendosi di essere al di sopra di esse, non credendo nemmeno alla
loro esistenza, né tanto meno ad una loro personificazione. Il suo
materialismo e ateismo assolvono perciò alla funzione di totem
apotropaici che non gli impediscono, però, di continuare a sognare terre
e creature dell’incubo, le quali, attraverso un processo d’integrazione
del tutto particolare, gli consentono di temere meno quella natura
spaventosa di cui sono emblemi. HPL, con i suoi racconti, smentì
continuamente le proprie convinzioni a-spiritualiste, anzi accostandosi
vieppiù ai propri mostri immaginari iniziò a condividere con essi un
mondo altro rispetto al nostro, la cui percezione in certo qual modo lo
rendeva più simile alle entità descritte nei suoi lavori che non agli
altri esseri umani. Il modello di Pickman, in cui un pittore risulta poi
essere imparentato con i mangiatori di carogne, i ghouls, che dipingeva
sulle sue tele, può ben illustrare questo concetto. In sostanza, il
mondo dell’orrore non è più così terrificante se si inizia a farne
parte.
La natura, per HPL,
è l’essenza stessa dell’orrore. In Tolkien, invece, è paesaggio vivente
(si pensi agli Ent, i «pastori di alberi», più che mai simbolo di una
natura che partecipa attivamente alla vita del mondo); bella e
rigogliosa o scura e terribile, essa è romantica (nel senso del sublime
di byroniana memoria) e riflette l’animo di chi vi è immerso, di coloro
che la abitano. La terra della Contea è curata e produce frutti perché
vi abitano gli hobbits, a differenza delle paludi (moltissime),
pericolose e sinistre, abitate da spiriti inquieti. Ciò che accomuna i
due autori è, senza dubbio, anche l’uso dei simboli. Un uso che,
consapevole o meno, non si può negare: farlo significherebbe offendere
la cultura imponente dei padri dell’horror e del fantasy. I simboli più
manifesti nelle rispettive produzioni sono quelli del viaggio, della
porta, della montagna, delle isole e della selva oscura, ma anche il
mondo crepuscolare e la descrizione delle città sacre. Ve ne sono molti
altri, alcuni caratteristici di un solo autore (come la spada, in
Tolkien), altri comuni come quello della fisiognomica deforme di alcuni
umanoidi (l’abbrutimento interiore dell’individuo?), su cui non ci
soffermeremo. Il viaggio, tanto per cominciare. Esso può essere breve o
lungo ma è sempre un cammino iniziatico. Durante il tragitto, la
Compagnia dell’Anello si sfalda e si ricompatta, acquista consapevolezza
di sé e della propria missione. Ogni tappa ha un colore proprio: il
verde dei boschi, il nero delle miniere, il rosso del Balrog e del Monte
Fato, il blu dei fiumi ecc., ed ogni volta uno o tutti i membri della
Compagnia crescono, spesso immolandosi (come Gandalf e Boromir, ma solo
il primo sarà meritevole di una nuova e più alta incarnazione).
In Lovecraft il
viaggio, anche solo una breve ma perigliosa salita (si pensi aLa casa
misteriosa lassù nella nebbia), ha come meta finale la scoperta
dell’esistenza di antichi segreti, di luoghi e dimensioni ultraterreni,
che inevitabilmente inizia chi lo compie segnandolo per sempre. Il
viaggio è come una strada maestra su cui insistono altri simboli. La
porta, ad esempio, è simbolo di passaggio fin dagli albori dell’umanità.
Porte e cancelli
consentono di entrare in luoghi protetti, ma pure in zone infernali, e
quindi di uscirne (ma sempre dopo aver superato qualche genere di
prova). Il Signore degli anelli è pieno di queste soglie che danno
accesso a veri micromondi e dinanzi alle quali si compiono profezie. Le
porte di Lovecraft sono varchi al di là dei quali vi sono altre
dimensioni. La montagna, come centro del mondo, testimonia epoche
dimenticate, è visibile sin da lontano e giganteggia quando vi si
giunge, è nascondiglio di sapienza segreta e di coloro che gelosamente
la custodiscono. È nei luoghi elevati che accadono molti eventi
portentosi, al pari che nelle loro viscere. L’isola è un altro simbolo
che, pur comparendo poche volte, è fondamentale. Si pensi a Númenor, che
come Atlantide sprofondò per la superbia e l’orgoglio degli antichi re,
e all’isola dove sorge R’lyeh, la città dove dorme Cthulhu, il Grande
Antico. Sono luoghi di potere lontani ma che possono sempre essere
riscoperti da chi sa dove cercarli.
La selva oscura è la foresta tenebrosa, un simbolo su cui non occorre soffermarsi tanto è stato studiato fino ad oggi.
Il mondo
crepuscolare, quello onirico di Randolph Carter e quello dell’ombra in
cui vivono i Nazgûl (e che diviene visibile a chi s’infila l’Unico
anello), è un limbo di congiunzione tra differenti stati di coscienza,
mortale per chi non vi arriva attrezzato. Ma se in Lovecraft esso non è
necessariamente il male, in Tolkien è il territorio degli Spettri, la
negazione della vita che infetta e avvelena gli incauti che vi si
attardano.
In
ultimo, per quel che ci compete, vi sono le città. In Alla ricerca del
misterioso Kadath di Lovecraft , la città del sogno, difficile da
raggiungere, è descritta secondo lo stile di Lord Dunsany (la città di
Sardathrion in Tempo e gli dei), e l’architettura comprende terrazze
altissime che ricordano, ancora, le montagne; in Tolkien la città per
eccellenza è Minas Tirith (invero, anch’essa difficile da raggiungere),
in cui si può ravvisare il simbolo delle mura concentriche con la torre
svettante nel mezzo, altro “centro del mondo”. Vi sono anche altre città
nella Terra di Mezzo, ognuna con il suo significato (Rivendell, per
esempio, luogo di un’armonia in larga parte perduta tra gli esseri
viventi ed il creato). In HPL le città, in genere, sono però quelle del
New England e sono descritte in modo da evidenziarne la nobile decadenza
al fine di preparare psicologicamente il lettore a ciò che seguirà nel
racconto, solitamente qualcosa di sinistro, di antico eppur pregno di
aristocratica conoscenza (come ne il caso di Charles Dexter Ward)
Tolkien e
Lovecraft, di primo acchito, non potrebbero sembrare più diversi.
Battaglie epiche ed eroi solari nel primo, viaggiatori solitari il più
delle volte sconfitti e terrorizzati nel secondo; divinità non manifeste
ma alleate degli Uomini in Tolkien, divinità malevole e disgustose
(tranne in un caso: l’antropomorfo Nodens, signore delle profondità) in
HPL. Tutte differenze che, a un esame più attento, si assottigliano fino
a rivelare, in molti casi, somiglianze di fondo. Anche perché ad
accostare questi due autori è una visione mitica del mondo, accompagnata
dal disprezzo di un iperrealismo tanto narrativo quanto esistenziale.
Che si tratti di miti positivi o negativi poco importa. Il mito resta il
tratto distintivo di chi giudica insufficiente e deludente la realtà
che ci circonda, e ciò era vero sia per Lovecraft che per Tolkien.
Sognare, inventare storie, linguaggi e mondi, entrare in contatto con
una dimensione potente e magica: ecco il segreto dei due autori e di
tutti coloro che li hanno letti e che continueranno a farlo.
sabato 9 novembre 2013
CASAGGì: COSTRUIAMO UN ALTRO MURO! AZIONE CONTRO LE BANCHE A FIRENZE...
AZIONE DIMOSTRATIVA DI CASAGGì CONTRO LA FINANZA. COSTRUITI
MURI DI CARTONE DAVANTI ALLE BANCHE DELLA CITTA’: “NELL’ANNIVERARIO DELLA
CADUTA DEL MURO DI BERLINO L’EUROPA DEVE PORSI UN NUOVO OBIETTIVO: ALZARE UN
MURO CONTRO LA SPECULAZIONE
BANCARIA E FINANZIARIA”
Cinque
muri di cartone sono stati simbolicamente innalzati davanti a cinque istituti
di credito fiorentini. I muri, fatti di cartone, riportavano una scritta:
“Alziamo un muro contro banche e finanza”. E’ un’azione dimostrativa, che
simboleggia la volontà di porre un freno alla speculazione bancaria e al
primato dell’economia finanziaria.
Nell’anniversario
della caduta del muro di Berlino, che ricorre il 9 novembre, i giovani del
centro sociale di destra Casaggì hanno scelto di porre l’attenzione
sull’attuale situazione dell’Europa, troppo poco attenta alla salute dei propri
popoli e assai più propensa ad obbedire ai diktat delle agenzie di rating e
della BCE.
La
nostra Europa è quella delle Patrie, dei Popoli e delle radici profonde;
un’Europa che non ha niente a che fare con Goldman Sachs e Morgan & Stanley;
un’Europa fiera della propria appartenenza e pronta a difendere la propria
identità; Un’Europa forte, capace di dotarsi di un proprio esercito e di una
moneta vera, che non sia la carta straccia imposta dal signoraggio monetario,
ma l’emanazione cartacea di una sovranità monetaria che è anche sovranità
politica, territoriale e culturale.
I
popoli europei, sulla scorta di quanto accaduto recentemente in Ungheria, hanno
il dovere di alzare un muro contro la speculazione eretta a sistema. Una
fortezza impenetrabile che tagli fuori dalla vita sociale le lunghe mani della
finanza e dell’usura, le austerity imposte e le crisi economiche fatte pagare
ai lavoratori dipendenti, alle imprese che scelgono di non delocalizzare e ai
piccoli risparmiatori.
L’iniziativa,
portata avanti anche in altre città d’Italia, è realizzata in collaborazione
con Rotta di Collisione, una rete di movimenti, Comunità e spazi identitari
attivi su tutto il territorio nazionale.
Iscriviti a:
Post (Atom)