di Marcello Veneziani
Il grande autore nomade è una
presenza che si sparge ovunque nel mondo. Ma per lui "il ritorno offre
una pienezza di senso che l'andata da sola non ha"...
Bruce Chatwin non è uno scrittore ma
uno stato d'animo che si è fatto zaino di cuoio, piedi, occhi e visione
del mondo. Il fascino di Chatwin eccede quello dei suoi stessi libri, il
suo mito scavalca le sue opere. Chatwin è forse l'unico autore che si
lascia amare non per i libri ma per il candore avventuroso dei suoi
sguardi alla vita, alla terra, ai popoli; e per i suoi passi verso
l'originario, per il caldo e il freddo che avvertiamo con lui, per la
passione del sole, del sud e del lontano, il suo «rinomato sguardo
azzurro acido» come egli stesso scriveva. Ma concorrono al mito anche la
sua morte precoce, le leggende e le dicerie, l'icona del suo volto come
quello di un Che Guevara biondo che non sogna la rivoluzione ma cerca,
in solitudine, l'essenza divina nella vita errante.
Chatwin è diventato metafora
dell'irrequietezza e allusione a una vita ubiqua. Chatwin è la
Patagonia, l'India e l'Australia, ma anche il Mediterraneo e la Grecia.
Nei titoli delle sue opere, anche postumi, c'è già il suo mito e il suo
programma di vita: Le vie dei canti, Anatomia dell'irrequietezza, Che ci
faccio qui? che è diventato il blasone dell'erranza ma la sua origine -
oltre Rimbaud - è in una battuta di De Gaulle a Churchill durante il
suo esilio a Londra che Chatwin cita. La vita e le opere di Chatwin sono
disseminate nel paesaggio; Bruce si sparge nel mondo, nei luoghi che
vede, nelle persone che incontra, nelle atmosfere che descrive. Volano
le sue pagine nell'aria, si slegano dal dorso e dall'autore e vivono e
respirano tra gli alberi, nei sentieri, nella luce e nel mare. «Vedo le
vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli. Uomini che hanno
lasciato una scia di canto ovunque sono andati».
Mi sono perso nelle sue lettere e
nella sua vita, raccolte ne L'alternativa nomade, edita ora da Adelphi
ma uscita tre anni fa in edizione originale (di cui ha già scritto su
queste colonne Stenio Solinas). È la parabola di un ragazzo di otto anni
che si conclude con un ragazzo di 48 anni, lo stesso stupore nei suoi
occhi celesti. Una parabola che segui con crescente pathos fino alle
ultime dolorose lettere; la sua malattia, il suo disperato ottimismo, la
sua fede sorgente e la sua morte. Con lo stesso titolo, che è poi di
un'opera irrealizzata di Chatwin, uscì nel '94 in Italia la biografia di
Nicholas Murray edita dal Settimo Sigillo.
La promessa della sua vita è in tre
righe scritte a Michael Cannon: «Cambiare è l'unica cosa per cui vale la
pena vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere
e mal di cuore». Altrove aveva notato che ci sono scrittori che
funzionano solo a domicilio, con la seggiola giusta, gli scaffali di
libri e dizionari, e ora un computer; e ci sono altri come lui, che
invece scrivono solo quando sono immersi nella vita e camminano nel
mondo. L'intera sua esistenza, con la sua opera, è condensata in una
lettera a Tom Maschler, qui proposta ma fu già pubblicata in Anatomia
dell'irrequietezza. Dopo aver confessato la sua impossibilità di stare
un mese nello stesso posto, Bruce così descrive la sua dromomania: «Non
ho nessuna ragione economica per muovermi, e avrei tutte le ragioni per
star fermo. I miei moventi, dunque sono materialmente irrazionali... ma
poi sono tirato indietro da un desiderio di casa. Ho una coazione a
vagare e una coazione a tornare - un istinto di rimpatrio, come gli
uccelli migratori». In un libro-intervista ad Antonio Gnoli, La
nostalgia dello spazio, Chatwin dice: «Il ritorno offre una pienezza di
senso che l'andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo
alla nostra irrequietezza». L'andare e il tornare come inspirare ed
espirare, moti vitali per dare fiato alla vita e anima al corpo...
Chatwin diceva che anche gli aborigeni australiani dopo aver errato
lungo tutto l'anno tornavano a intervalli stagionali nei loro luoghi
sacri per riprendere contatto con le radici ancestrali, fondate sul
tempo del sogno. Un modello di vita arcaico ma che si addice bene
all'età della globalizzazione: nomadi e spaesati avremo sempre bisogno
di un luogo che avvertiremo come la nostra casa e la nostra radice
autentica, dove abita la nostra origine e palpita il nostro sogno
iniziale. Sarà la musica a riportarci a casa.
Chatwin detesta l'Europa opulenta che
si va a suo dire «maializzando», sempre più grassa e inerte, ottusa.
«L'involuzione culturale è dieci volte più rapida di quella genetica».
Ma Chatwin parla con disprezzo pure «dell'allegra cultura hashishistica»
degli hippie per i quali auspica la galera. Nel viaggio Bruce non cerca
come loro l'allucinazione e l'utopia ma la radice vera e profonda della
realtà, la verità della vita, rispondendo alle sue molle interiori.
Cerca i nomadi «per sete di Dio», annota in un taccuino quando si
rifugia in un convento sul Monte Athos e partecipa toto corde alla vita
monacale e ha un'esperienza spirituale così profonda da non riuscire a
scriverne. Le sue pagine migliori, le più intense, sono forse quelle che
non scrisse. Ci sono esperienze che non si possono tradurre in arte e
in parola senza falsarle.
Chatwin ha un rapporto controverso
col giornalismo, scrive articoli «alimentari» come li definiva
Prezzolini; detesta «l'iridescente mediocrità» della stampa e la
condanna all'oblio delle idee buone mescolate alle cattive. Ma,
aggiunge, c'è da considerare l'affitto e i beveraggi... Però riconosce
che il giornalismo insegna a uno scrittore l'indispensabile arte della
condensazione e la tecnica del cacciatore di storie. E l'origine
economica non toglie qualità ai suoi reportage.
Le lettere più struggenti sono quelle
che precedono la morte, lettere avvolte nella malattia negata, l'Aids,
nel desiderio di tutelare i suoi famigliari dalla verità sulla sua
omosessualità e nei propositi di riprendere a viaggiare, mutando vita.
C'è tutto il suo desiderio di donare, di pregare, di credere, di
compiere esorcismi e atti votivi per guarire miracolosamente. «Spero
d'essere stato martoriato da Dio» scrive a Gertrude Chanler, annunciando
d'aver compiuto il salto nella fede. Rimpiange di non esser diventato
monaco, si professa credente nel rito orientale dei cristiano-ortodossi e
annuncia di voler devolvere tutti i suoi beni agli ammalati. Estremi
atti per propiziare celeste benevolenza su di lui. Una messa greca
accompagnò la sua cremazione. Era il 20 gennaio del 1989 quando i suoi
viaggi mutarono direzione ed ebbero per destinazione le vie del cielo,
lasciando lungo il passaggio una scia di canti.
di Marcello Veneziani
Il grande autore nomade è una
presenza che si sparge ovunque nel mondo. Ma per lui "il ritorno offre
una pienezza di senso che l'andata da sola non ha"...
Bruce Chatwin non è uno scrittore ma
uno stato d'animo che si è fatto zaino di cuoio, piedi, occhi e visione
del mondo. Il fascino di Chatwin eccede quello dei suoi stessi libri, il
suo mito scavalca le sue opere. Chatwin è forse l'unico autore che si
lascia amare non per i libri ma per il candore avventuroso dei suoi
sguardi alla vita, alla terra, ai popoli; e per i suoi passi verso
l'originario, per il caldo e il freddo che avvertiamo con lui, per la
passione del sole, del sud e del lontano, il suo «rinomato sguardo
azzurro acido» come egli stesso scriveva. Ma concorrono al mito anche la
sua morte precoce, le leggende e le dicerie, l'icona del suo volto come
quello di un Che Guevara biondo che non sogna la rivoluzione ma cerca,
in solitudine, l'essenza divina nella vita errante.
Chatwin è diventato metafora
dell'irrequietezza e allusione a una vita ubiqua. Chatwin è la
Patagonia, l'India e l'Australia, ma anche il Mediterraneo e la Grecia.
Nei titoli delle sue opere, anche postumi, c'è già il suo mito e il suo
programma di vita: Le vie dei canti, Anatomia dell'irrequietezza, Che ci
faccio qui? che è diventato il blasone dell'erranza ma la sua origine -
oltre Rimbaud - è in una battuta di De Gaulle a Churchill durante il
suo esilio a Londra che Chatwin cita. La vita e le opere di Chatwin sono
disseminate nel paesaggio; Bruce si sparge nel mondo, nei luoghi che
vede, nelle persone che incontra, nelle atmosfere che descrive. Volano
le sue pagine nell'aria, si slegano dal dorso e dall'autore e vivono e
respirano tra gli alberi, nei sentieri, nella luce e nel mare. «Vedo le
vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli. Uomini che hanno
lasciato una scia di canto ovunque sono andati».
Mi sono perso nelle sue lettere e
nella sua vita, raccolte ne L'alternativa nomade, edita ora da Adelphi
ma uscita tre anni fa in edizione originale (di cui ha già scritto su
queste colonne Stenio Solinas). È la parabola di un ragazzo di otto anni
che si conclude con un ragazzo di 48 anni, lo stesso stupore nei suoi
occhi celesti. Una parabola che segui con crescente pathos fino alle
ultime dolorose lettere; la sua malattia, il suo disperato ottimismo, la
sua fede sorgente e la sua morte. Con lo stesso titolo, che è poi di
un'opera irrealizzata di Chatwin, uscì nel '94 in Italia la biografia di
Nicholas Murray edita dal Settimo Sigillo.
La promessa della sua vita è in tre
righe scritte a Michael Cannon: «Cambiare è l'unica cosa per cui vale la
pena vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere
e mal di cuore». Altrove aveva notato che ci sono scrittori che
funzionano solo a domicilio, con la seggiola giusta, gli scaffali di
libri e dizionari, e ora un computer; e ci sono altri come lui, che
invece scrivono solo quando sono immersi nella vita e camminano nel
mondo. L'intera sua esistenza, con la sua opera, è condensata in una
lettera a Tom Maschler, qui proposta ma fu già pubblicata in Anatomia
dell'irrequietezza. Dopo aver confessato la sua impossibilità di stare
un mese nello stesso posto, Bruce così descrive la sua dromomania: «Non
ho nessuna ragione economica per muovermi, e avrei tutte le ragioni per
star fermo. I miei moventi, dunque sono materialmente irrazionali... ma
poi sono tirato indietro da un desiderio di casa. Ho una coazione a
vagare e una coazione a tornare - un istinto di rimpatrio, come gli
uccelli migratori». In un libro-intervista ad Antonio Gnoli, La
nostalgia dello spazio, Chatwin dice: «Il ritorno offre una pienezza di
senso che l'andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo
alla nostra irrequietezza». L'andare e il tornare come inspirare ed
espirare, moti vitali per dare fiato alla vita e anima al corpo...
Chatwin diceva che anche gli aborigeni australiani dopo aver errato
lungo tutto l'anno tornavano a intervalli stagionali nei loro luoghi
sacri per riprendere contatto con le radici ancestrali, fondate sul
tempo del sogno. Un modello di vita arcaico ma che si addice bene
all'età della globalizzazione: nomadi e spaesati avremo sempre bisogno
di un luogo che avvertiremo come la nostra casa e la nostra radice
autentica, dove abita la nostra origine e palpita il nostro sogno
iniziale. Sarà la musica a riportarci a casa.
Chatwin detesta l'Europa opulenta che
si va a suo dire «maializzando», sempre più grassa e inerte, ottusa.
«L'involuzione culturale è dieci volte più rapida di quella genetica».
Ma Chatwin parla con disprezzo pure «dell'allegra cultura hashishistica»
degli hippie per i quali auspica la galera. Nel viaggio Bruce non cerca
come loro l'allucinazione e l'utopia ma la radice vera e profonda della
realtà, la verità della vita, rispondendo alle sue molle interiori.
Cerca i nomadi «per sete di Dio», annota in un taccuino quando si
rifugia in un convento sul Monte Athos e partecipa toto corde alla vita
monacale e ha un'esperienza spirituale così profonda da non riuscire a
scriverne. Le sue pagine migliori, le più intense, sono forse quelle che
non scrisse. Ci sono esperienze che non si possono tradurre in arte e
in parola senza falsarle.
Chatwin ha un rapporto controverso
col giornalismo, scrive articoli «alimentari» come li definiva
Prezzolini; detesta «l'iridescente mediocrità» della stampa e la
condanna all'oblio delle idee buone mescolate alle cattive. Ma,
aggiunge, c'è da considerare l'affitto e i beveraggi... Però riconosce
che il giornalismo insegna a uno scrittore l'indispensabile arte della
condensazione e la tecnica del cacciatore di storie. E l'origine
economica non toglie qualità ai suoi reportage.
Le lettere più struggenti sono quelle
che precedono la morte, lettere avvolte nella malattia negata, l'Aids,
nel desiderio di tutelare i suoi famigliari dalla verità sulla sua
omosessualità e nei propositi di riprendere a viaggiare, mutando vita.
C'è tutto il suo desiderio di donare, di pregare, di credere, di
compiere esorcismi e atti votivi per guarire miracolosamente. «Spero
d'essere stato martoriato da Dio» scrive a Gertrude Chanler, annunciando
d'aver compiuto il salto nella fede. Rimpiange di non esser diventato
monaco, si professa credente nel rito orientale dei cristiano-ortodossi e
annuncia di voler devolvere tutti i suoi beni agli ammalati. Estremi
atti per propiziare celeste benevolenza su di lui. Una messa greca
accompagnò la sua cremazione. Era il 20 gennaio del 1989 quando i suoi
viaggi mutarono direzione ed ebbero per destinazione le vie del cielo,
lasciando lungo il passaggio una scia di canti.
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