di Antonio Pannullo (foto e articolo de Il Secolo d'Italia)
Anche se non è più la capitale dei Longobardi, Pavia è una città viva,
economicamente e culturalmente. Posta sul fiume Ticino (così infatti la
chiamarono i Romani che la fondarono, Ticinum) ha sempre attratto
immigrazione, soprattutto negli anni Settanta, quando sfiorò i 90mila
abitanti. Oggi ne conta neanche 70mila. E in quel periodo molti
lavoratori vennero nella ubertosa città lombarda per lavorare, come ad
esempio Emanuele Zilli, venuto dall’Abruzzo, che a Pavia ci si era
trovato benissimo, tanto che ci si era sposato e aveva avuto due
bambine. Il suo non è un caso famoso, la sua morte, avvenuta il 5
novembre di 40 anni fa, fu presto dimenticata, archiviata come banale
incidente stradale. Persino chi lo avrebbe dovuto ricordare e si sarebbe
dovuto occupare di lui, non lo fece. Intendiamo riferirci al Msi, il
partito di cui Emanuele era attivissimo militante, che per lunghi anni
sembrò dimenticarlo. La spiegazione c’era, e la dette il suo carissimo
amico Stefano Losurdo, avvocato nonché deputato di Alleanza Nazionale di
Pavia, e anche lui, come Emanuele, venuto in Lombardia dalla sua amata
Altamura. Losurdo, scomparso nel marzo scorso, Zilli e altri erano lo
zoccolo duro del Msi pavese. Nel 2005 Losurdo raccontò che la vicenda di
Zilli, trovato morto vicino al suo motorino in una strada della città e
quindi archiviato come incidente stradale, non giunse ai vertici del
partito, e in particolare ad Almirante, che per le altre vittime missine
aveva sempre destinato aiuti e attenzioni. Proprio non lo seppe, a
quanto pare, e poi la faccenda venne lentamente dimenticata. Ma non da
tutti: ogni anni infatti i suoi camerati dedicano a Emanuele il
“Presente!” nel luogo dove è caduto.
Dimenticato, ma gli ingredienti, oltre che dell’omicidio politico,
ricordando come gli extraparlamentari di sinistra regolavano a quei
tempi i conti in sospeso, del grande giallo ci sono tutti. Erano i tempi
dell’“uccidere un fascista non è reato”, predicato e praticato dai
violenti di Potere Operaio e Lotta Continua, come le decine di vittime
missine, spesso giovanissime, stanno lì a testimoniare. Emanuele
comunque non è di famiglia fascista, un suo parente è addirittura
direttore di Famiglia Cristiana. Si avvicina alla Giovane Italia,
l’organizzazione giovanile del Msi, a Teramo, il paese dove era nato,
perché la Giovane Italia aveva molta attrattiva per i ragazzi anche per
il capillare lavoro sociale che svolgeva. Giovanissimo, conosce
Giuseppina e la sposa. A 25 anni ha già due figlie, Patrizia e Vincenza,
figlie che oggi sono donne. Lavora in fabbrica e frequenta la sezione
del Msi di Pavia. Non naviga nell’oro, ma è molto felice, e soprattutto
entusiasta, vorrebbe cambiare il mondo, o almeno migliorarlo un po’.
Proprio per le sue figlie. Anche a Pavia come in tutto il nord Italia,
pur essendo provincia, la tensione politica è tanta: le sinistre sempre
più intolleranti e violente decidono a livello nazionale di togliere
completamente l’agibilità politica ai “fascisti”, e per farlo utilizzano
tutti i mezzi. Aiutata indirettamente anche da una parte della
magistratura, che avvia le pratiche per mettere il Msi fuorilegge,
rafforzando così le frange estreme della sinistra convinte di fare la
cosa giusta perseguitando i fascisti. Per la cronaca, diciamo che non
sono riusciti né in un intento né nell’altro, ma l’intera operazione ha
fatto pagare costi esistenziali immensi a tutti coloro che allora
militavano nel Msi. E a quelli come Emanuele e la sua famiglia è andata
peggio di tutti.
Insomma, scontri ce ne furono anche a Pavia, perché i missini non ci
stavano al sopruso, ossia a vedersi negato il diritto di esprimersi, di
fare politica, di parlare. Tra i tanti scontri ce ne fu uno,
nell’inverno del 1972, che secondo molti ebbe un peso nella sorte di
Emanuele. I ragazzi del Fronte stanno attaccando manifesti in Piazza
Grande, quando vengono aggrediti anche fisicamente da un commando di
compagni, verosimilmente di Lotta Continua. Poiché i compagni sono di
più, un ragazzo, non Emanuele, si difende con una pistoletta ad aria
compressa, che ferisce lievemente a un braccio un aggressore. Pochi
giorni dopo Emanuele fu selvaggiamente picchiato vicino la sede, tanto
da essere portato all’ospedale di Pavia, per poi essere arrestato,
perché era stato denunciato come colui che aveva sparato. La vita
riprende, così come la determinazione di Emanuele a portare avanti la
sua battaglia con i suoi camerati. Decide di candidarsi alle elezioni
comunali, dove non viene eletto però certamente viene sovraesposto.
Compaiono le scritte minacciose col suo nome per la città, ci sono altre
scaramucce. Fino a quel 2 novembre del 1973. Alle 18,30 Emanuele esce
dalla fabbrica, i colleghi lo vedono andare via in motorino come sempre,
e poi tutte le ipotesi sono aperte: viene ritrovato agonizzante in via
Fratelli Scapolla vicino al motorino per terra, in una posizione non
compatibile con una caduta e con strane ecchimosi, e soprattutto con un
occhio nero e un taglietto sotto al mento. Insomma, che fosse caduto da
solo o investito da un pirata della strada ci credettero in pochi, e
ancora meno ci credono oggi. Sì, perché un pirata della strada avrebbe
in tutti questi anni scritto una lettera, magari anonima, per dare pace
alla famiglia e agli amici , raccontando la verità. Ma non l’ha fatto,
perché forse la verità non si può raccontare: come non la raccontarono
per il rogo di Primavalle, dove i media, gli intellettuali, i
giornalisti, gli artisti sostennero l’innocenza degli assassini fino
all’ultimo. E in alcuni casi sapevano che innocenti non erano. Per Zilli
è lo stesso: sapendo come andassero le cose a quei tempi, possiamo
ipotizzare che forse fu seguito, o semplicemente incontrato dagli ultras
dell’odio e fatto cadere, picchiato e abbandonato sull’asfalto. Di
episodi così in quegli anni ne accadevano ogni giorno, e non solo a Roma
o Milano. Forse erano convinti di avergli dato solo una buona lezione,
forse non si erano resi conto della gravità delle sue condizioni, e poi
si sono spaventati. Fatto sta che il 5 novembre morì senza avere ripreso
conoscenza. Non sappiamo cosa avesse pensato allora la moglie – 22enne e
con due bambine in tenerissima età! – ma solo nel 1997 comparve in un
libro l’inchiesta di Stefano Vaglio Laurin, che sulla vicenda ha svolto
un’approfondita ricerca, che solleva dubbi sul fatto che si possa essere
trattato di un incidente. A impedire di fare luce sulla morte di
Emanuele contribuì poi una specie di perizia medica nella quale si
accettavano e si escludevano contemporaneamente tutte le ipotesi,
lasciando in sostanza le cose come le aveva trovate. Il Candido mandò un
inviato, Leo Siegel, che pubblicò i risultati del reportage giungendo a
inquietanti conclusioni: non sembra un incidente stradale. Oggi sono
quarant’anni che Emanuele è morto. Chi oggi lo commemora, quando lui
morì non era ancora nato, qualcuno di quelli che lo conobbero è morto.
Persino Lollo, uno degli autori del rogo di Primavalle dopo trent’anni
ha parlato, ha detto come andarono le cose. Possibile che oggi gli
autori di quell’aggressione non vogliano scaricarsi la coscienza e dire
come andarono le cose quel giorno in una deserta traversa di via dei
Mille? Certamente non volevano ucciderlo, come forse non volevano
uccidere Paolo Di Nella, con quell’unica sprangata. Non sapremo forse
mai la verità, ma sappiamo certamente, che quel “Presente!” gridato a
voce tesa ogni anno da quei ragazzi, significa che Emanuele è davvero
ancora qui con la sua comunità.
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