martedì 5 novembre 2013

Emanuele Zilli, incidente od omicidio politico? Dopo quarant’anni qualcuno dica la verità...


di Antonio Pannullo (foto e articolo de Il Secolo d'Italia)
 
Anche se non è più la capitale dei Longobardi, Pavia è una città viva, economicamente e culturalmente. Posta sul fiume Ticino (così infatti la chiamarono i Romani che la fondarono, Ticinum) ha sempre attratto immigrazione, soprattutto negli anni Settanta, quando sfiorò i 90mila abitanti. Oggi ne conta neanche 70mila. E in quel periodo molti lavoratori vennero nella ubertosa città lombarda per lavorare, come ad esempio Emanuele Zilli, venuto dall’Abruzzo, che a Pavia ci si era trovato benissimo, tanto che ci si era sposato e aveva avuto due bambine. Il suo non è un caso famoso, la sua morte, avvenuta il 5 novembre di 40 anni fa, fu presto dimenticata, archiviata come banale incidente stradale. Persino chi lo avrebbe dovuto ricordare e si sarebbe dovuto occupare di lui, non lo fece. Intendiamo riferirci al Msi, il partito di cui Emanuele era attivissimo militante, che per lunghi anni sembrò dimenticarlo. La spiegazione c’era, e la dette il suo carissimo amico Stefano Losurdo, avvocato nonché deputato di Alleanza Nazionale di Pavia, e anche lui, come Emanuele, venuto in Lombardia dalla sua amata Altamura. Losurdo, scomparso nel marzo scorso, Zilli e altri erano lo zoccolo duro del Msi pavese. Nel 2005 Losurdo raccontò che la vicenda di Zilli, trovato morto vicino al suo motorino in una strada della città e quindi archiviato come incidente stradale, non giunse ai vertici del partito, e in particolare ad Almirante, che per le altre vittime missine aveva sempre destinato aiuti e attenzioni. Proprio non lo seppe, a quanto pare, e poi la faccenda venne lentamente dimenticata. Ma non da tutti: ogni anni infatti i suoi camerati dedicano a Emanuele il “Presente!” nel luogo dove è caduto.
 
Dimenticato, ma gli ingredienti, oltre che dell’omicidio politico, ricordando come gli extraparlamentari di sinistra regolavano a quei tempi i conti in sospeso, del grande giallo ci sono tutti. Erano i tempi dell’“uccidere un fascista non è reato”, predicato e praticato dai violenti di Potere Operaio e Lotta Continua, come le decine di vittime missine, spesso giovanissime, stanno lì a testimoniare. Emanuele comunque non è di famiglia fascista, un suo parente è addirittura direttore di Famiglia Cristiana. Si avvicina alla Giovane Italia, l’organizzazione giovanile del Msi, a Teramo, il paese dove era nato, perché la Giovane Italia aveva molta attrattiva per i ragazzi anche per il capillare lavoro sociale che svolgeva. Giovanissimo, conosce Giuseppina e la sposa. A 25 anni ha già due figlie, Patrizia e Vincenza, figlie che oggi sono donne. Lavora in fabbrica e frequenta la sezione del Msi di Pavia. Non naviga nell’oro, ma è molto felice, e soprattutto entusiasta, vorrebbe cambiare il mondo, o almeno migliorarlo un po’. Proprio per le sue figlie. Anche a Pavia come in tutto il nord Italia, pur essendo provincia, la tensione politica è tanta: le sinistre sempre più intolleranti e violente decidono a livello nazionale di togliere completamente l’agibilità politica ai “fascisti”, e per farlo utilizzano tutti i mezzi. Aiutata indirettamente anche da una parte della magistratura, che avvia le pratiche per mettere il Msi fuorilegge, rafforzando così le frange estreme della sinistra convinte di fare la cosa giusta perseguitando i fascisti. Per la cronaca, diciamo che non sono riusciti né in un intento né nell’altro, ma l’intera operazione ha fatto pagare costi esistenziali immensi a tutti coloro che allora militavano nel Msi. E a quelli come Emanuele e la sua famiglia è andata peggio di tutti.
 
Insomma, scontri ce ne furono anche a Pavia, perché i missini non ci stavano al sopruso, ossia a vedersi negato il diritto di esprimersi, di fare politica, di parlare. Tra i tanti scontri ce ne fu uno, nell’inverno del 1972, che secondo molti ebbe un peso nella sorte di Emanuele. I ragazzi del Fronte stanno attaccando manifesti in Piazza Grande, quando vengono aggrediti anche fisicamente da un commando di compagni, verosimilmente di Lotta Continua. Poiché i compagni sono di più, un ragazzo, non Emanuele, si difende con una pistoletta ad aria compressa, che ferisce lievemente a un braccio un aggressore. Pochi giorni dopo Emanuele fu selvaggiamente picchiato vicino la sede, tanto da essere portato all’ospedale di Pavia, per poi essere arrestato, perché era stato denunciato come colui che aveva sparato. La vita riprende, così come la determinazione di Emanuele a portare avanti la sua battaglia con i suoi camerati. Decide di candidarsi alle elezioni comunali, dove non viene eletto però certamente viene sovraesposto. Compaiono le scritte minacciose col suo nome per la città, ci sono altre scaramucce. Fino a quel 2 novembre del 1973. Alle 18,30 Emanuele esce dalla fabbrica, i colleghi lo vedono andare via in motorino come sempre, e poi tutte le ipotesi sono aperte: viene ritrovato agonizzante in via Fratelli Scapolla vicino al motorino per terra, in una posizione non compatibile con una caduta e con strane ecchimosi, e soprattutto con un occhio nero e un taglietto sotto al mento. Insomma, che fosse caduto da solo o investito da un pirata della strada ci credettero in pochi, e ancora meno ci credono oggi. Sì, perché un pirata della strada avrebbe in tutti questi anni scritto una lettera, magari anonima, per dare pace alla famiglia e agli amici , raccontando la verità. Ma non l’ha fatto, perché forse la verità non si può raccontare: come non la raccontarono per il rogo di Primavalle, dove i media, gli intellettuali, i giornalisti, gli artisti sostennero l’innocenza degli assassini fino all’ultimo. E in alcuni casi sapevano che innocenti non erano. Per Zilli è lo stesso: sapendo come andassero le cose a quei tempi, possiamo ipotizzare che forse fu seguito, o semplicemente incontrato dagli ultras dell’odio e fatto cadere, picchiato e abbandonato sull’asfalto. Di episodi così in quegli anni ne accadevano ogni giorno, e non solo a Roma o Milano. Forse erano convinti di avergli dato solo una buona lezione, forse non si erano resi conto della gravità delle sue condizioni, e poi si sono spaventati. Fatto sta che il 5 novembre morì senza avere ripreso conoscenza. Non sappiamo cosa avesse pensato allora la moglie – 22enne e con due bambine in tenerissima età! – ma solo nel 1997 comparve in un libro l’inchiesta di Stefano Vaglio Laurin, che sulla vicenda ha svolto un’approfondita ricerca, che solleva dubbi sul fatto che si possa essere trattato di un incidente. A impedire di fare luce sulla morte di Emanuele contribuì poi una specie di perizia medica nella quale si accettavano e si escludevano contemporaneamente tutte le ipotesi, lasciando in sostanza le cose come le aveva trovate. Il Candido mandò un inviato, Leo Siegel, che pubblicò i risultati del reportage giungendo a inquietanti conclusioni: non sembra un incidente stradale. Oggi sono quarant’anni che Emanuele è morto. Chi oggi lo commemora, quando lui morì non era ancora nato, qualcuno di quelli che lo conobbero è morto. Persino Lollo, uno degli autori del rogo di Primavalle dopo trent’anni ha parlato, ha detto come andarono le cose. Possibile che oggi gli autori di quell’aggressione non vogliano scaricarsi la coscienza e dire come andarono le cose quel giorno in una deserta traversa di via dei Mille? Certamente non volevano ucciderlo, come forse non volevano uccidere Paolo Di Nella, con quell’unica sprangata. Non sapremo forse mai la verità, ma sappiamo certamente, che quel “Presente!” gridato a voce tesa ogni anno da quei ragazzi, significa che Emanuele è davvero ancora qui con la sua comunità.

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