venerdì 10 maggio 2013

Un anno in Palestina: la colonizzazione

di Andrea Petolicchio (L'Intellettuale Dissidente)

Quando si parla di colonizzazione si pensa spesso all’epoca dell’imperialismo, in cui le grandi potenze europee si spartivano il mondo. Oggi si sente molto parlare delle colonie israeliane in Cisgiordania, ma difficilmente chi non c’è mai stato può immaginarle. Una colonia può infatti avere aspetti molto diversi. Certe colonie sono vere e proprie città, con negozi, scuole e ospedali. Altre assomigliano a piccoli villaggi di 20 o 30 casette all’americana, con il garage e il praticello davanti. Altre ancora consistono in 3 roulotte fissate a terra con una gettata di cemento fatta fortunosamente. Ci sono infatti colonie legali (legali nel senso che i costruttori hanno un permesso dello Stato israeliano per edificare, nonostante ad Oslo le autorità israeliane si fossero impegnate ad abbandonare questa pratica) e colonie illegali.

Una colonia illegale è generalmente impiantata nottetempo da un piccolo gruppo di giovani ebrei ultraortodossi che portano in cima ad una collina qualche roulotte e la piantano a terra. Ovviamente all’alba il contadino arabo che possiede la terra vuole cacciarli, ma questi chiamano l’esercito. Una pattuglia arriva e, secondo voi, chi difende? La famiglia di contadini arabi che possiedono la terra dai tempi degli Ottomani, o i giovani zelanti ebrei? Sappiamo tutti che il primo dovere di uno Stato è proteggere i suoi cittadini, ed Israele lo sa anche meglio di noi. Quindi la nuova colonia viene generalmente messa sotto sorveglianza per evitare altri attacchi. A questo punto sorge spontaneo chiedersi: ma questi coloni perché non vengono cacciati subito, visto che non avevano alcun permesso per costruire? La risposta è semplice. Perché in Israele è vietato sgomberare i cittadini dalle loro abitazioni: in Israele anche chi, per esempio, non paga l’affitto non può essere cacciato di casa. Così la piccola colonia resta, viene regolarizzata, cresce e così come un fungo su quella collina nasce quella che poi diventerà una vera e propria città.

In Cisgiordania di fronte ad ogni paesino c’è una colonia. Di fronte a quello che era il mio, Abu Dis, c’è Maale Adumim, una città di 35.000 abitanti, con uno splendido centro commerciale e 4 piscine olimpioniche. Il tutto su terreni appartenenti, dal tempo degli Ottomani, a famiglie arabe. Gli Ebrei in Cisgiordania sono in tutto mezzo milione. Immaginare una pace fondata sulla soluzione bi-statale (due popoli, due stati), sembra molto difficile in questo contesto. I coloni non se ne andranno. Tutto questo è valido anche per Gerusalemme est. In città vecchia, tra i vicoli del quartiere musulmano facilmente si vedono porte blindate sorvegliate da qualcuno. Anche quelle sono colonie, cioè case di cui il legittimo proprietario arabo è stato cacciato e occupate da qualcuno che è cittadino israeliano e che quindi gode della protezione della legge. Ma perché fanno questo? Con quale coraggio giovani Ebrei vanno a vivere, insieme alle loro famiglie, in un ambiente a loro ostile? Fanno questo per realizzare l’ideale sionista, allo scopo di ebraizzare Gerusalemme est e tutta la Cisgiordania, in un’ottica puramente colonialista. Oggi tutte le democrazie occidentali riflettono sul proprio passato coloniale, e sui libri di storia il colonialismo è studiato come un’epoca di razzismo e barbarie. Lo stato di Israele è fondato su questi principi. Ma è una storia vecchia di 65 anni, non è questo il punto. Il punto è che la colonizzazione continua ancora oggi.

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