di Domenico Di Tullio (Barbadillo.it)
Occupa grande spazio e genera solita polemica insensata la proposta politica di concedere cittadinanza ai figli di stranieri,
nati nel territorio della Repubblica delle Arance e dei Limoni. Ai
sensi della legge 91 del 1992, già i nati da cittadini apolidi (ovvero
soggetti privi di qualunque cittadinanza, come alcuni tra i rifugiati
politici e per motivi umanitari) sono di diritto cittadini italiani,
quando nascono nei nostri confini, così come i figli di un solo genitore
italiano.
Esiste, ancora, il caso nel quale i genitori siano ignoti o
il figlio non segua la cittadinanza dei genitori, secondo la legge dello
stato di questi ultimi. Se il tuo stato non ti fila, ti
prendiamo noi a scatola chiusa, senza nemmeno farti pagare il ticket.
Dopo saranno cavoli tuoi, ma intanto goditela. Ancora altra ipotesi, ma
certamente più ridotta, quelle di acquisizione della cittadinanza a
richiesta, per essere nati in territori già italiani o appartenenti al
disciolto Impero austro-ungarico. Se sei un italiano giuliano o dalmata,
fratello di storia e lingua e sangue profondo, abbiamo sì cercato di
seppellire il ricordo del tuo abbandono di stato per un cinquantennio,
ma se vuoi tornare a pagare le tasse in Italia, accomodati.
L’ipotesi generalizzata, tuttavia, è quella che riguarda
tutti i bambini nati in Italia da genitori stranieri e qui residenti
ininterrottamente per 18 anni, che abbiamo optato per la cittadinanza
italiana entro i 19. Esiste, ancora, la naturalizzazione degli
immigrati regolari, che abbiamo trascorso almeno 10 anni nel territorio
della Repubblica, in assenza di precedenti penali e con adeguate risorse
economiche.
Per una volta, si riconosce il masochismo caparbio e splendido di chi,
rinunciando a sovvenzioni caritatevoli, aiuti umanitari, agevolazioni
domestiche, benefici di politiche sociali socialmente disutili, cambi di
sesso a carico del SSNN, autoesenzione fiscale e previdenziale,
pensioni facili, salvezza da multe, interessi e penali, diritti di
notifica e altre vessazioni equitaliote, gaudente immunità processuale e
sostanziale, abbandoni il bengodi dell’essere straniero in Italia, non
avendone per niente approfittato. E poi scelga volontariamente di essere
ita-lia-no e portare la croce che ci accomuna: caricarsi di doveri
civici borbonici e imposizioni fiscali sabaude, ipotesi di reato
creative e relative gogne mediatiche, divieti di sosta casuali, varchi
incontrollati, autovelox doviziosi e parchi etilometri, accollandosi
pregresse responsabilità di debiti pubblici con vertigine e milioni di
gaudenti statali, scontando perfino le vigliaccate di qualche isolato
pusillanime, lievitate a onte nazionali.
Benvenuto, nuovo Italiano, sentiamo già di volerti bene.
Come se ne vuole a un parente pazzerello – anche un po’ fesso, è vero –
ma affettuoso e buono. Entusiasta, soprattutto, come noi non ci
sentiamo più di essere. Ridicola, oltreché assolutamente non
auspicabile, una acquisizione della cittadinanza per mera nascita, che
renderebbe probabile l’immediato e numeroso approdo di plotoni di
gestanti, le quali, una volta partorito un nuovo piccolo italiano,
vanterebbero di fatto il diritto di residenza, poi automaticamente
esteso anche all’altro coniuge genitore: vuoi mica privare il minore
italiano delle proverbiali cure parentali. Grazie, perciò, ministro
Kyenge, ma uno ius soli in Italia già ce lo abbiamo. La ius “sola”,
invece, scusi ma l’abbiamo inventato noi.
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